Che vino berremo tra vent’anni? – Campanili n. 2
Viaggio nelle Langhe, dove la capacità di adattamento dei produttori di Barolo tiene testa agli effetti estremi del cambiamento climatico
Monocultura. Non avevo mai ragionato su questo aspetto guardando delle colline ricoperte di vigneti: a prima vista, gli ondulati paesaggi italiani celebri per la loro bellezza, i loro colori caldi e la loro fusione con gli elementi circostanti trasmettono una sensazione di ordine “naturale”. Di naturale, però, la vite coltivata, educata e sfruttata per produrre vino ha ben poco. Ciò che deriva dall’uva è uno dei prodotti in cui la mano dell’uomo è più evidente, e in cui lo stile di un’area geografica, di una cantina o addirittura del singolo vigneto determina narrazioni e prezzi. È la bottiglia che crea valore, non il vino.
Nelle Langhe, è la bottiglia che ha reso i circa 1.800 ettari dove viene vinificato il Barolo i più costosi d’Italia: un ettaro, in media, vale circa 1,5 milioni di euro, con punte ancora più elevate come quella raggiunta nel 2018, quando un acquirente anonimo comprò mezzo ettaro per 2 milioni. Secondo il disciplinare, quell’insieme di norme che ne regolano la produzione, per poter inserire la rinomata denominazione “Barolo” sull’etichetta è necessario che il vino sia prodotto solo con uve Nebbiolo ed esclusivamente nel territorio di questi 11 comuni: una zona piccolissima, che vale soltanto 14 milioni di bottiglie l’anno, l’80 per cento delle quali destinato all’esportazione, eppure capace di diventare famosa in tutto il mondo.
Nonostante la ricchezza patrimoniale evidente, le aziende vitivinicole mantengono una caratteristica unica, che è anche parte del loro successo: molte sono piccole e a conduzione familiare. Spesso il proprietario è anche il massimo dirigente dell’azienda, lavora in cantina ed è anche il vignaiolo. Tutto vede e tutto conosce del suo vigneto, e si è accorto da tempo che il clima è cambiato molto, troppo rapidamente, un concetto che ho ascoltato più volte parlando con i produttori delle Langhe, dove ho trascorso alcuni giorni.
Giulia Negri è una delle vignaiole più giovani della zona. Ha cominciato nei primi anni Dieci nella tenuta di famiglia a La Morra, uno dei punti più alti dove è consentito vinificare Barolo, che secondo il disciplinare non può superare i 540 metri d’altezza. Serradenari è il nome della collina dove si trovano i suoi vigneti, che dagli effetti del cambiamento climatico hanno tratto beneficio. Almeno per adesso: “Settant’anni fa qui il Nebbiolo non sarebbe maturato”, mi spiega, “mentre oggi arriviamo senza problemi alla maturità fenolica”, e ciò comporta avere vini che si esprimono al meglio anche nei primi anni di vita, una situazione condivisa con molte altre colline delle Langhe. Il clima che muta fa parte dell’esperienza secolare dei vignaioli, è cambiato più volte nei decenni, e non stupisce.
Carlotta Rinaldi è la figlia di uno degli storici produttori di Barolo, Giuseppe, dal quale ha ereditato l’azienda che gestisce insieme alla sorella, Marta. Seduti nel giardino della sua cantina, dal quale vediamo le colline vitate ancora “dormienti” in attesa dell’esplosione primaverile, ragioniamo di questi cambiamenti, e mi racconta un aneddoto che lascia comprendere la loro profondità: “Ho da poco letto una delle prime monografie sui vitigni, scritta a fine Ottocento da Lorenzo Fantini: c’è una parte dedicata al Nebbiolo in cui si sostiene che si tratta di un vitigno destinato a sparire perché ottiene una maturazione buona su dieci, dato che all’epoca il clima era troppo freddo e pioveva moltissimo”.
Vista così, la nuova epoca non sembra catastrofica. “È dal 2004 che abbiamo iniziato a ragionare su questi temi e a rivolgerci a botanici, entomologi, genetisti, che hanno conoscenze sinergiche della vigna rispetto alle nostre”, mi racconta Gaia Gaja, dell’omonima cantina. “Il cambiamento climatico, d’altronde, influenza tutti gli aspetti della vigna: i suoli, il comportamento degli insetti e dei patogeni, la materia organica, l’uva, le piante, l’erba. L’approccio deve essere dunque ampio”. Gaia è figlia di Angelo, e rappresenta, con Rossana e Giovanni, la quinta generazione di vignaioli, un fattore rilevante in termini di esperienza e memoria storica, perché non tutto si acquisisce con la formazione.
Marco Parusso mi accoglie nella sua azienda in cima alla collina di Bussia, a Monforte d’Alba: per arrivarci il navigatore fa imboccare una strada sterrata talmente ripida da farmi benedire la giornata secca. L’altezza, però, per la vite è fondamentale: serve ad areare la vigna, a far sì che la pioggia non ristagni, a distribuire meglio la luce del sole. Anche Parusso individua il cambiamento più evidente all’inizio degli anni Duemila, precisamente nell’annata 2003, la vera e propria cesura, a suo dire: “Il punto, però, resta sempre lo stesso: fare un vino buono. E le annate degli ultimi anni sono migliori di quelle di quando ho cominciato”.
Ma come si fa un vino buono? Prima della vendemmia, ai produttori interessa avere delle uve in equilibrio, in particolare tra due componenti fondamentali: gli zuccheri, che si trasformano in alcol durante la fermentazione in cantina, e l’acidità, che protegge il vino durante la fermentazione e contribuisce al colore, alla freschezza, alla “beva”, come si dice in gergo. Queste componenti sono in contrasto tra loro: lo zucchero si concentra sempre più man mano che l’uva matura, stemperando l’acidità, che diminuisce col passare della stagione. Ogni vino, secondo le sue caratteristiche, andrà vendemmiato in momenti diversi: i vini bianchi e gli spumanti hanno bisogno di elevata acidità, e le loro uve si raccolgono presto, a partire da fine agosto; i vini rossi, invece, necessitano di maturazioni più lunghe, e le uve si raccolgono fino a novembre. Per il Barolo c’è un’ulteriore specificità: migliora con l’invecchiamento, anche decine di anni dopo la vendemmia, grazie a lunghe macerazioni, fermentazioni e affinamento in botte e in bottiglia (minimo 38 mesi, secondo il disciplinare).
Fa più caldo, questa constatazione è immediata. E se fino a poco tempo fa questo aumento della temperatura è stato accolto con favore da una terra dove il freddo ha sempre reso difficile la viticoltura, oggi comincia a essere un problema: “Lo scorso 8 ottobre ero in vigna e c’erano 31 gradi, gli acini stavano cuocendo, una cosa che non avevamo mai visto prima e che nemmeno la pianta stessa aveva mai vissuto”, racconta Giulia Negri. “Di fronte a queste temperature, la pianta compie uno sforzo immane, va sotto stress: è carica, è arrivata alla fine del suo ciclo di maturazione e si trova di fronte a delle temperature agostane”, aggiunge. Il punto non è soltanto il cambiamento, ma l’aumento della frequenza dei fenomeni estremi, come grandinate, ondate di calore, piogge monsoniche. Negli ultimi tre anni l’accelerazione è stata inaspettata e tangibile.
Venerdì prossimo, arriva il nuovo episodio di lessico di Campanili, in cui approfondiremo alcuni temi di questo reportage con un ospite.
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Per il vino, il caldo produce conseguenze sull’uva che squilibrano il rapporto tra le sue componenti: si ha meno acidità, più zucchero e quindi più alcol. Pierpaolo Sirch è l’agronomo a capo della produzione di Feudi di San Gregorio, prima azienda vinicola del Sud Italia, che guarda anch’essa con preoccupazione ciò che accade. Mi spiega perché questo rapporto è fondamentale per fare buoni vini: “L’acidità è la spina dorsale di un vino, determina con altri componenti la longevità. Ci sono zone dove le temperature raggiungono i 45 gradi e lì c’è poco da fare; mentre nelle zone di limbo, come la nostra o come le Langhe, noi tecnici dobbiamo intervenire per proteggere suolo e vite”. Non è semplice imparare a convivere con la rapidità di questo cambiamento, anche perché “noi siamo degli chef che cucinano una volta l’anno, non puoi ripigiare l’uva! Puoi solo utilizzare l’esperienza degli anni precedenti, ma ogni vendemmia è molto diversa”, mi ha detto un altro produttore, Sergio Germano.
Marco Parusso mi racconta nel dettaglio com’è cambiato il suo lavoro in vigna, confermando indirettamente il passaggio del Nebbiolo da uva poco matura, che aveva quindi bisogno di molto aiuto da parte del contadino, a uva che raggiunge una concentrazione zuccherina elevata: “Tradizionalmente facevamo la ‘potatura verde’ verso luglio, nella fase in cui il grappolo inizia a cambiare colore ma è ancora verde, acerbo, per concentrare lo zucchero in meno grappoli”. Con il caldo, però, la concentrazione diventava troppo elevata, e così Parusso ha compiuto l’operazione opposta: lasciare più grappoli per far distribuire meglio le sostanze, e “scaricare” la pianta più avanti, quaranta giorni prima della vendemmia che avviene a fine ottobre. La nuova procedura ha generato anche un fenomeno di recupero di uve: i grappoli “scaricati” non sono sufficientemente maturi per trasformarsi in Barolo, perché troppo acidi, ma possono essere un’ottima base per un vino spumante, che Parusso vinifica con il cosiddetto metodo classico inventato per produrre Champagne. È infatti possibile ricavare spumanti bianchi anche da uve a bacca nera come il Nebbiolo, perché è la macerazione del mosto con la buccia che trasferisce il colore: se questa non avviene o è molto breve, il vino sarà bianco. In questo caso si parla di blanc de noirs.
Questo piccolo fazzoletto di Piemonte, oggi ricchissimo e in grado di competere con i grandi vini francesi, all’inizio degli anni Ottanta era una zona povera, chiusa, spopolata. I giovani originari delle Langhe andavano a lavorare in fabbrica, e chi restava a coltivare la terra e le vigne aveva, salvo poche eccezioni, un solo obiettivo: quantità. Pochi visionari, come Renato Ratti per il Barolo e Giovanni Gaja per il Barbaresco, avevano puntato negli anni Settanta sulla qualità, abbassando la quantità prodotta e fissando anche prezzi molto alti per l’epoca: oltre 1.000 lire a bottiglia, contro le circa 350 a cui si vendeva il Nebbiolo. L’idea era comunicare all’enorme mercato americano che il vino italiano non fosse solo “cheap and funny”, ma “autorevole”, capace di fare concorrenza ai francesi. Tuttavia, erano casi isolati e comunque contrastati dalla maggior parte dei produttori, timorosi di un tale approccio.
Pochi anni dopo, un gruppo di giovani vignaioli decide di fare le cose diversamente: vuole imparare e ispirarsi ai francesi, in particolare alle zone della Borgogna, e soprattutto vuole portare avanti un movimento collettivo, coinvolgendo tutto il territorio. Così, alcuni cominciano a viaggiare, a condividere esperienze, a cercare nuovi metodi di produzione. E capiscono due cose. La prima è che bisogna ridurre la resa del singolo ettaro, concentrare i sapori, fare qualità, come i francesi e come i produttori “eretici” alla Ratti e Gaja. La seconda è una rottura ancora più grande con la tradizione: invecchiare il vino non più in grandi botti ma in barrique, un metodo di produzione tipicamente francese che dona al vino più ossigeno, perché il contatto con il legno è maggiore, e ciò rende il tannino (la componente che assicura la sensazione astringente nei vini rossi, presente nelle bucce e nei vinaccioli) del Nebbiolo più morbido e immediato, mentre è tendenzialmente duro e austero. Il mercato americano, in breve tempo, impazzisce per il Barolo e per i Barolo Boys, veri artefici dell’esplosione della popolarità di questa zona che lì lo esportano. Negli ultimi anni molti produttori sono tornati indietro, si trovano cantine che utilizzano ancora barrique, ma molte aziende hanno puntato sulle grandi botti. La rivoluzione, però, ha reso le Langhe ciò che sono, e se oggi hanno le risorse per investire, continuare a puntare sulla qualità e affrontare il futuro del cambiamento climatico con fiducia è anche grazie all’intuizione dei Barolo Boys.
Anche perché il caldo non è il solo problema. Ce n’è un altro, ancora più grande: la siccità. La quantità di pioggia che scende è inferiore rispetto al passato, ma soprattutto “piove male” e nevica meno. Ciò comporta un minore accumulo di acqua nella terra più profonda, abituata invece ad assimilare lentamente il manto nevoso invernale, e una maggiore aridità del suolo, che non è più in grado di assorbire le piogge copiose primaverili. “Lo stress idrico e temperature elevate si aggiungono ai raggi solari che possono bruciare gli acini, a quel punto inservibili in vendemmia, perché i tannini sono fissati a quel momento, mesi prima della vinificazione, e sono ancora duri, non vanno bene, non si sono evoluti”, ragiona Carlotta Rinaldi. Questo può comportare costi di manodopera più elevati, perché c’è bisogno di personale in grado di distinguere gli acini buoni da quelli meno buoni, e anche rese minori: meno uva vuol dire meno vino. I produttori ritengono che alla siccità si possa rispondere nutrendo meglio il terreno, lavorandolo meno, aumentando le piante leguminose tra i filari, lasciando più erba, mentre una volta si diserbava molto per il motivo opposto: pioveva troppo! In questi anni, aggiunge Carlotta Rinaldi, la vite ha mostrato una certa dinamicità: “Un adattamento l’ho già visto. Nel 2017 abbiamo avuto un anno strano, molto caldo, le vigne hanno avuto una crescita impetuosa ma poi si sono fermate, non riuscivano più a lavorare e siamo stati costretti a vendemmiare presto; l’anno successivo la ripresa vegetativa è stata molto più lenta, come se ci fosse già una memoria di scarsa disponibilità idrica”.
L’adattamento non è soltanto in vigna e in cantina, ma è anche e soprattutto nella preservazione della biodiversità. Le zone vitate, non bisogna mai dimenticarlo, sono una monocultura: hanno bisogno di un ambiente diversificato per essere protette. Da qui, la grande contrarietà al cambiamento del disciplinare. All’inizio del 2024, il Consorzio di Tutela Barolo Barbaresco Alba Langhe e Dogliani ha proposto ai suoi soci alcune modifiche delle regole attuali. Alcune, come l’obbligo di imbottigliare nella stessa area in cui è imposto coltivare l’uva, sono ampiamente condivise: oggi è possibile (e accade) per un produttore acquistare il vino sfuso, imbottigliarlo all’estero (il caso più citato è quello di un’azienda di Denver) e venderlo come Barolo. Quella che invece non è condivisa affatto, e difficilmente raggiungerà la maggioranza necessaria, è la possibilità di estendere la coltivazione delle viti utilizzabili per produrre Barolo anche ai versanti nord delle colline. In questo modo, si ritiene, l’impatto del caldo sarà minore e la zona si adatterà meglio al futuro aumento delle temperature. Tuttavia, per piantare nuove vigne di Nebbiolo si dovrebbe disboscare, con un notevole impatto sull’ecosistema delle Langhe e con risultati produttivi e di qualità che molti dei produttori con cui ho parlato ritengono quantomeno incerti.
Caldo, siccità, luce: se il gusto del vino è dato dalla varietà di vitigno, dall’intervento dell’uomo e dal clima in cui cresce la vite, viene da chiedersi se il Barolo che berremo tra vent’anni sarà simile a quello bevuto finora. Per adesso, la qualità dei vini regge, come afferma Gaia Gaja: “In passato abbiamo fatto dei grandi vini con uve che non erano mai perfettamente mature. Oggi i nostri vini sono più facili da bere grazie ai tannini più morbidi e maturi, acidità più basse e un’espressione fruttata più evidente. Il Nebbiolo è invece tradizionalmente un vitigno con tannini importanti”. Tutti i produttori sottolineano come ormai quasi non abbia più senso parlare di “grande annata” per il Barolo, perché le annate sono mediamente buone con poi qualche punta di eccellenza. È difficile, insomma, immaginare un’annata pessima, come accadeva nel Novecento, in cui si decideva addirittura di non imbottigliare per non danneggiare il prestigioso nome. Anche Marco Parusso sembra ottimista: “Io mi sono adattato, non mi piango addosso, cerchiamo di allungare il ciclo di maturazione, di lavorare sulle diete per avere delle piante resistenti ed equilibrate”.
Prevedere quello che sarà, tuttavia, è quasi impossibile: “Mio padre continua a ripetere che i vini di oggi sono diversi da quelli del secolo scorso, meglio o peggio non so dire. Io, naturalmente, concordo con lui”, ammette Gaia Gaja. A cui risponde indirettamente Carlotta Rinaldi, leggermente più preoccupata: “Non abbiamo punti di riferimento così lunghi. Non so dire se il Barolo del 2018 tra venticinque anni sarà ancora in forma. Con queste condizioni e questi valori analitici mi viene più facile mettere in dubbio la stabilità”. Sergio Germano, invece, non concorda sui dubbi relativi alla capacità di invecchiamento: “Non siamo veggenti, però il punto è che oggi abbiamo vini che hanno fin da subito buoni tannini: per me è un vantaggio, non solo commerciale, ma anche di filosofia, perché è giusto mettere sul mercato vini pronti. Chi può dire come saranno tra vent’anni?”.
Ma forse è proprio per questo che il mondo del vino è così affascinante, prevede il passato e prova ad adattarsi anche grazie alla dinamicità dei suoi produttori. In questo piccolo campanile che sono le Langhe, le capacità di certo non mancano. Speriamo che basti.
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