“Io lì mi salvo”, a Nisida il carcere è davvero una seconda possibilità – Campanili n. 5
Come funziona l’istituto napoletano, esempio di un sistema penale minorile all’avanguardia. Il suo modello, però, rischia di diventare un’eccezione, come dimostrano le violenze al Beccaria di Milano
Dalla collina di Posillipo, della quale è una sorta di propaggine, l’isolotto di Nisida copre il panorama verso Pozzuoli e Capo Miseno, distraendo dalla presenza imponente e arrugginita dell’area industriale abbandonata di Bagnoli. In realtà l’isola non è più tale da tempo: è legata alla terraferma da un sottile istmo attraversabile a piedi o in auto, un tratto di costa artificiale che chiude il golfo e trasformato in porto turistico, frequentato dalla borghesia napoletana che non vuole spendere una fortuna per ormeggiare la propria barca a Mergellina.
Sul promontorio dell’isola si intravedono diversi edifici colorati, che invitano a salire e godere del panorama sull’altro golfo di Napoli, quello flegreo, meno famoso ma altrettanto suggestivo. Non si può. Alla fine dell’istmo, un cancello verde sorvegliato dalle forze dell’ordine sbarra l’accesso. Oltre l’inferriata, dopo qualche curva a gomito, compare in lontananza, alla fine della collina, l’istituto penale per minorenni, nome istituzionale del carcere minorile tra i più capienti d’Italia. La contraddizione tra luogo e funzione non si ferma prima del cancello: superati i primi edifici, e in particolare un caseggiato bianco, sede amministrativa del penitenziario, un secondo cancello, più imponente, nasconde alla vista il carcere vero e proprio. Sono al momento tutti maschi, reclusi per reati commessi da minorenni, e possono restare in queste strutture fino ai 25 anni, anche se la reclusione inizia dopo aver raggiunto la maggiore età. Ecco la seconda contraddizione: sembra uno spazio “normale”, con il cortile, un campo da basket, e i ragazzi che giocano all’aria aperta. Poi, alzi gli occhi e noti immediatamente le sbarre alle finestre, mentre si intravede qualche indice e medio stringere una sigaretta.
Gianluca Guida parla lentamente, con un tono di voce basso ma autorevole, e un ricorrente sorriso caldo che gli illumina il volto e lo sguardo, a volte distratto dai pensieri e dalla responsabilità del suo ruolo, i cui confini effettivi sono molto più ampi di quelli che imporrebbe l’etichetta istituzionale: dirigente penitenziario del ministero della Giustizia. Guida è direttore di Nisida da quasi trent’anni, ed è inevitabile che la sua vita si intrecci con quella del carcere e di chi vi è transitato, ma è anche una sorta di preside di una struttura che somiglia a una scuola, ed è allo stesso tempo un maestro che prova a introdurre, con gradualità, valori e prospettive ai ragazzi che quando entrano non ne hanno. Per alcuni detenuti, però, può essere ancora di più, e trasformarsi in una figura paterna, anche severa all’evenienza.
“Abbiamo a che fare con giovani che si sono trovati, per scelta o per un insieme di fattori più grandi di loro, sulla strada della devianza”, ragiona Guida introducendo il suo lavoro, mentre camminiamo a rilento sulla salita che dal secondo cancello, dopo un rapido controllo di sicurezza, porta alla struttura detentiva vera e propria. “Però questi restano ragazzini. C’è un lato umano molto forte nel rapporto con loro, anche una simpatia, ma non bisogna dimenticare che hanno commesso reati molto gravi”. Rapine a mano armata, lesioni aggravate, tentati omicidi, omicidi colposi e volontari. È un segno “sano” del sistema penale minorile che commina il carcere solo per i crimini più efferati e per i profili che dimostrano di essere più pericolosi, un mondo diverso da quello degli adulti. La reclusione è davvero l’estrema ratio: nel 2022 sono stati soltanto 1.051 ingressi in carcere. Soltanto è comunque un avverbio da relativizzare, perché nello stesso anno i minorenni hanno commesso 27 dei 322 omicidi perpetrati in Italia. Più di due al mese.
Arrivati nella corte principale serve un po’ per realizzare la funzione del luogo: è metà aprile, fa caldo, almeno una ventina di ragazzi sono sparpagliati tra il cortile, il campetto e i muretti che lo costeggiano. Accanto a me e al direttore, c’è anche Eleonora Ascione, comandante della polizia penitenziaria di Nisida. “Comandante!”, esclamano alcuni ragazzi, “possiamo parla’ nu mument”, chiedono, prefigurando un colloquio importante. C’è un motivo, mi spiega il direttore: è lei che gestisce l’assegnazione dei posti nelle celle, una scelta delicata e fondamentale per mantenere sotto controllo i detenuti, ma anche per rendere la loro detenzione meno dura, magari grazie a qualche legame di amicizia.