Esportatori, ricchi ma dipendenti – Campanili n. 3
In che modo i distretti industriali del nord Italia, in particolare quelli legati al settore automotive, soffrono la crisi d’identità e la stagnazione della Germania
“Io non ho mai visto i tedeschi fare tante ferie ‘fuori stagione’ come lo scorso marzo. Ci arrivano messaggi da parte di fabbriche che restano ferme una settimana, una cosa mai vista”. Il vicentino Federico Visentin, amministratore delegato del gruppo Mevis e presidente di Federmeccanica, spiega in una semplice frase cosa vuol dire far parte di una catena del valore, un destino che accomuna molte aree produttive del nord Italia. La costellazione di piccole e medie imprese italiane è uno dei fattori cruciali per comprendere in che modo un paese in profondo declino demografico, con i salari in stagnazione dall’inizio degli anni Novanta e un abbandono del capitale umano, resti l’ottava economia mondiale.
Le imprese italiane sono delle formidabili subfornitrici, costruiscono componenti che si inseriscono in produzioni di taglia maggiore, grazie alla qualità della manodopera, dei materiali e dei rapporti commerciali consolidati. I dati sono chiari: dal 2014 a oggi l’export italiano ha conosciuto un aumento senza precedenti. Che, tuttavia, rende vulnerabile un pezzo dell’economia agli andamenti dei principali mercati di destinazione: è l’aspetto incontrollabile dell’interconnessione.
Il principale cliente italiano è la Germania, che sta vivendo una vera e propria crisi d’identità. Il suo modello basato su energia a basso costo importata dalla Russia, grande peso dell’industria automobilistica endotermica e interscambio con la Cina non regge più, con conseguenze politiche ed economiche profonde. Nel 2023, l’economia tedesca è entrata in recessione, contraendosi dello 0,3 per cento, e le previsioni per il 2024 indicano una sostanziale stagnazione. Perché questo ha un impatto significativo sulle aziende italiane? La catena del valore è un concetto ampio. Prevede subfornitori “diretti”, come la filiera dell’automotive: pneumatici, rivestimenti per sedili, freni, e tutto ciò che “compone” un’auto dipendono direttamente dalle aziende che la assemblano. A loro volta, tuttavia, queste fabbriche hanno bisogno di gru per la logistica, macchinari di assemblaggio, giunzioni in gomma: se un’economia che vale circa il 12 per cento delle esportazioni italiane rallenta, le ricadute sono inevitabili anche per i nostri campanili.
Tra gli imprenditori del nord la crisi tedesca è argomento di discussione quotidiano. Vicenza è la terza provincia per esportazioni in Italia dopo Torino e Milano, e di gran lunga la principale per esportazioni pro capite: meno di un milione di abitanti vive in un territorio che esporta oltre 23 miliardi di euro di beni, una ricchezza che ha risentito immediatamente del rallentamento tedesco. La flessione è incontrovertibile: nell’ultimo trimestre del 2023, l’export vicentino nei confronti della Germania è diminuito del 7,26 per cento, in calo per il terzo trimestre consecutivo dopo delle riduzioni meno evidenti ma comunque marcate osservate durante l’anno. Visentin si dice convinto che questo rallentamento continuerà anche nel 2024, almeno fino all’autunno, uno scenario condiviso da diversi centri studi, tra cui anche quello di Intesa Sanpaolo: “A partire dalla seconda metà del 2024 l’export distrettuale potrebbe riprendere un buon ritmo di crescita, grazie alla ripartenza degli scambi mondiali”, spiega Giovanni Foresti, responsabile Regional Research della Direzione Studi e Ricerche della banca. Che tuttavia avverte: “Si tratta di attese soggette a forte incertezza, vista la presenza nell’attuale scenario di diversi fattori di rischio, dalle tensioni geopolitiche ai due conflitti alle porte dell’Europa, passando per le elezioni europee e, soprattutto, per quelle americane”.
La crisi dell’automotive tedesco si riverbera inevitabilmente sulle aziende italiane, che producono componentistica avanzata e soffrono la riduzione degli ordini. Si tratta del settore probabilmente più importante nella relazione italo-tedesca, perché le automobili moderne con motore endotermico necessitano di circa 30 mila parti da assemblare, molte di queste prodotte nella Penisola. Il ruolo fondamentale dei distretti italiani apparve immediatamente chiaro all’opinione pubblica europea quando il primo aprile 2020, a poche settimane dall’inizio della pandemia, gli amministratori delegati di BMW, Daimler e Volkswagen chiesero ad Angela Merkel, durante una videoconferenza privata, di intervenire per far ripartire le fabbriche italiane, chiuse a causa delle restrizioni. Una fonte di Volskwagen, interrogata subito dopo la fine della riunione, spiegò all’agenzia Reuters che: “Non aiuta se un paese va avanti e poi in Italia o in Spagna tutto è ancora fermo”.
Oggi il problema è inverso, è il produttore finale della catena a essere in stallo: “C’è una grandissima incertezza nel settore”, continua Federico Visentin. “Non si lanciano nuovi modelli, e anche i più coraggiosi tra i tedeschi che stanno investendo sull’elettrico in realtà poi non stanno dando seguito, i volumi annunciati sono ridimensionati e il lancio dei nuovi progetti sta rallentando. Il mercato non li assorbe, i consumatori non si fidano e restano in attesa”.
La questione delle piattaforme, spiega l’imprenditore vicentino, per cui la Germania rappresenta circa il 40 per cento del fatturato, è cruciale: “L’incertezza tedesca è questa, nessuno investe più sull’auto endotermica, prima ogni sei o sette anni le piattaforme delle auto venivano rinnovate, e questo portava a cambiamenti, nuove commesse, miglioramenti continui dei prodotti. Oggi, invece, è tutto più rallentato, e assistiamo al fenomeno ‘carry over’, piattaforme che dovrebbero uscire dal mercato ma invece restano, e restano anche i prezzi che sono stati fissati sei o sette anni fa. Abbiamo provato a rinegoziare i contratti ma ci siamo riusciti solo parzialmente, e quindi i margini si riducono”.
Anche Laura Dalla Vecchia, presidente di Confindustria Vicenza, sottolinea quanto le difficoltà nella produzione di automobili stanno causando problemi in Italia: “Il punto non sono soltanto i componenti metallici, ma è tutto l’indotto. Pensiamo alla concia, che è un settore rilevante in Veneto: non si tratta di produzioni che fanno soltanto sandali, ma anche i sedili per le auto”. Se a livello occupazionale non ci sono ancora state conseguenze pesanti, Dalla Vecchia ha notato qualche cambiamento già nel 2023: “Molti hanno utilizzato la cassa integrazione. Non sono al corrente di licenziamenti collettivi, anche perché il 2021 e il 2022 sono stati anni buoni, ma sono stati ridotti i contratti a termine, i contratti a scadenza non sono stati rinnovati, e le assunzioni sono diminuite”. Le conseguenze sono ancora relative, perché le aziende subfornitrici subiscono gli effetti del rallentamento con circa un anno di ritardo, ma molte delle realtà con cui abbiamo parlato segnalano riduzioni rilevanti dei portafogli ordini dalla Germania.
La provincia di Bergamo è la quarta in Italia per esportazioni (20,7 miliardi di euro nel 2023), ed è uno dei principali distretti industriali italiani per interscambio con la Germania. Nel quarto trimestre dello scorso anno, l’export verso Berlino è sceso del 3,6 per cento, con profonde conseguenze per alcuni settori, in particolare il tessile (-13,7 per cento di export globale) e la chimica (-10,5 per cento). La metallurgia ha tenuto, ma quella più legata all’industria tedesca di auto ha percepito il calo della domanda. Paolo Agnelli ha un osservatorio privilegiato della situazione. Bergamasco, rappresenta la terza generazione che guida l’omonimo gruppo leader nel settore dell’estrusione dell’alluminio e famoso per le sue padelle professionali, ma è anche il presidente di Confimi, la confederazione dell’industria manifatturiera che rappresenta circa 45 mila imprese per complessivi 600 mila dipendenti: “In Germania c’è stato un calo vistoso del settore automotive, le case tedesche non credono nell’auto elettrica. Noi produciamo 50 mila tonnellate di alluminio all’anno, e di queste circa 6 mila sono destinate all’automotive. Se si producono meno auto in Germania, i tedeschi comprano meno materiali da noi italiani”.
Chi resiste meglio? “Se un’impresa si è messa solo a fare componenti auto per i gruppi tedeschi non ne esce. Si salva chi ha diversificato. Nel caso della mia azienda non andiamo mai sopra il 20 per cento, e se si supera quella soglia fermiamo le vendite”, risponde Agnelli. Non tutti però possono procedere in questo modo: “Diversificare è assolutamente necessario, ma non è sempre semplice: avere un cliente che ti fa un ordine da cento pezzi è diverso dal trovare dieci clienti che ordinano dieci pezzi ciascuno. Noi stiamo cercando di aumentare la presenza in paesi dove il rallentamento che si vede in Europa è meno marcato, come Stati Uniti, Canada e Sud-est asiatico”, spiega Filippo Girardi, Presidente di Midac, azienda veronese specializzata in batterie per auto e per carrelli logistici.
Nel 2023 l’export verso la Germania del “Made in Brescia” è calato del 12,4 per cento. I ribassi più significativi riguardano i prodotti della metallurgia. Il governo tedesco non investe in modo anticiclico sulle infrastrutture. Per capire com’è cambiata la Germania, non solo dal punto di vista industriale, abbiamo chiesto un aiuto a Giuseppe Pasini, presidente di Feralpi, storica azienda del lago di Garda che produce poco meno di 2,5 milioni di tonnellate di acciaio all’anno. Quando Pasini andò per la prima volta nella Germania Est nell’inverno 1991, incontrava i soldati russi per le strade di Berlino e la Frauenkirche di Dresda era in rovina. Tre anni dopo, nel 1994, il primo acciaio veniva nuovamente prodotto nel sito produttivo. “Oggi sarebbe inimmaginabile con la burocrazia tedesca”, spiega andando dritto al nocciolo. “La Germania è cambiata molto, è diventata troppo lenta, e probabilmente anche più chiusa”, un atteggiamento che sul lungo periodo potrebbe avere ricadute importanti sul sistema industriale, cresciuto negli ultimi anni anche grazie al fondamentale apporto di manodopera straniera, capace di sostenere la produzione di un paese che all’inizio degli anni Dieci ha affrontato un profondo declino demografico, oggi risolto.
Pasini fa due esempi. Sulla lentezza tedesca, racconta che sta valutando tre o quattro diverse ubicazioni per investire in energie rinnovabili e costruire parchi eolici per l’impianto di Riesa, in Sassonia, ma “la licenza non sarà concessa prima del 2028 o 2029” per “gli aspetti ecologici e logistici” che devono essere verificati. Poi cita i risultati di un sondaggio che realizza per testare il clima aziendale. Per esempio, è stato chiesto ai dipendenti se raccomanderebbero il posto di lavoro a persone appartenenti a una religione diversa da quella cristiana: in Italia l’81 per cento ha risposto “sì”, in Germania solo il 55 per cento. E poi, un’altra domanda simile: consiglierebbe l’azienda a un non europeo? Italia: 81 per cento. Germania: 54 per cento. “Mi sono stupito della differenza tra le risposte avute in Italia, dove abbiamo circa 950 dipendenti, e quelle in Germania, dove ne abbiamo più di 800”, spiega Pasini. Che avverte: “Se la Germania, che ha sempre spinto verso un’Europa liberale e aperta, ora si chiude su se stessa diventa un problema per tutti”.
Ma non è solo chi produce componentistica per l’industria a soffrire, perché l’impatto della crisi tedesca si sente anche altrove. Il settore della ceramica italiana ha chiuso il 2023 con una diminuzione delle vendite vicina al 20 per cento rispetto all’anno precedente: molte aziende sono ricorse in modo massiccio alla cassa integrazione per rallentare la produzione ed evitare di stipare troppo i magazzini. Nel trevigiano, per citare un altro esempio, il rallentamento ha colpito in pieno anche l’artigianato, che in quella provincia ha un peso non indifferente: le imprese del comparto hanno più addetti della media nazionale (4 contro circa 2,5) ed esportano principalmente mobili e oggetti d’arredo, che hanno subìto un calo del 15,7 per cento, seguiti da un -8,4 per cento fatto registrare dal settore tessile e da un -6 per cento da quello delle calzature. Il peggior risultato però si riscontra nei prodotti di gomma e plastica, che calano del 21,6 per cento.
Trovare altri mercati di destinazione aiuta certamente, ma per alcuni settori è complesso. La Moreali di Reggio Emilia aveva un’elevata esposizione nei confronti della Germania, che rappresentava quasi il 50 per cento del fatturato nel 2020, e oggi ha un peso minore, ma che comunque resta alto: circa il 35 per cento degli ordini viene da aziende tedesche. Moreali produce prodotti industriali specifici, composti su misura, ingranaggi conici o cilindrici necessari al funzionamento delle macchine utilizzate nella logistica. Antonio Di Sarno, responsabile commerciale dell’azienda, spiega perché la relazione è così stretta: “Le realtà che utilizzano i macchinari che produciamo si trovano principalmente in Germania, quindi quando alcuni clienti sono venuti a mancare abbiamo comunque scelto di cercarne altri nello stesso mercato tedesco: non abbiamo molte alternative, per quanto siamo consapevoli che serva allargare il portafoglio clienti”. In Emilia Romagna è una tendenza comune: il Consorzio Tutela Aceto Balsamico di Modena ha aperto una gara per selezionare un’agenzia a cui affidare le attività di promozione in Italia e Germania: il programma, che avrà durata triennale, conterà su di un budget di 1,1 milioni di euro. “Per resistere alla frenata tedesca serve anche un cambio di impostazione”, afferma Paolo Cavicchioli, ex presidente della Fondazione di Modena e cofondatore del gruppo Doxee. “La diversificazione ha un valore aggiunto. Ma in Emilia si tende alla centralizzazione. E soprattutto c’è un cortocircuito tra capitale e lavoro, non è mai stato sviluppato un modello sociale simile a quello tedesco. Il tessuto sindacale mostra una contrattazione di terzo livello diffusa che non ha fatto salti in avanti come in Germania”.
Per tutti questi motivi, la ripresa tedesca è fondamentale per i distretti del nord Italia, e anche per i conti pubblici del paese: l’aumento del deficit e del debito pubblico italiano (in crescita almeno fino al 2026) è sostenibile soltanto grazie alle buone performance dei campanili che esportano, continuano a creare valore aggiunto, e generano ricchezza. Se i distretti del nord entrano davvero in crisi, sarà anche Roma a pagarne le conseguenze.
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