Il girone infernale della cittadinanza – Campanili n. 29
Non è solo una questione normativa. La burocrazia italiana limita implicitamente le naturalizzazioni, logorando chi vuole ottenere la cittadinanza con una muraglia di carte, attese e ostacoli
Ruwani ha trentacinque anni. È arrivata in Italia da bambina, parla un italiano perfetto con un bell’accento napoletano – più marcato del mio –, ha studiato qui, lavora regolarmente, paga le tasse, ha una famiglia, che condividiamo: è mia cognata. Ma non è cittadina italiana.
Mi sono sempre chiesto perché, ma non ho mai avuto davvero l’occasione di chiederglielo. Come una di quelle domande che si rimandano, perché si presume ci sia una risposta ragionevole: se dopo tutto questo tempo non l’ha mai chiesta né ottenuta avrà le sue ragioni, mi dicevo, magari è una scelta consapevole. Col tempo, però, ho iniziato a cogliere frasi, racconti, segnali di frustrazione che mi hanno fatto intuire la verità: non è questione di scelte, ma di ostacoli.
La cittadinanza ai nuovi italiani – bambini nati o cresciuti in Italia da genitori stranieri – è spesso trattata solo come una questione meramente normativa, come nel referendum dell’8 e 9 giugno prossimi che propone di ridurre da dieci a cinque gli anni di residenza richiesti agli extracomunitari. Molto più raramente si guarda alle procedure concrete che regolano l’ottenimento della cittadinanza. Ed è strano che questo aspetto sia così poco considerato dall’opinione pubblica. Dopo aver parlato con diverse persone che stanno cercando di ottenere – o hanno ottenuto, dopo anni di lotta e resistenza – la cittadinanza, posso riassumere la trafila burocratica in due parole: un girone infernale.
Nelle linee guida del Ministero dell’Interno si sottolinea con forza – usando persino il maiuscolo – che la cittadinanza per ius sanguinis è un DIRITTO, così come lo è quella di chi è nato in Italia da genitori stranieri, a condizione che abbia risieduto legalmente e senza interruzioni fino alla maggiore età e presenti domanda entro un anno dal compimento dei diciott’anni. Tutte le altre forme, invece, sono considerate una CONCESSIONE.
Lo Stato ci tiene a chiarire che la naturalizzazione non è automatica, ma “fortemente discrezionale, nel quale si valutano, oltre al rispetto dei requisiti di legge, l’interesse pubblico della richiesta, il livello di integrazione sociale del richiedente e dei familiari, e la volontà di entrare a far parte della comunità italiana”.

Questo margine di discrezionalità si riflette anche nei tempi con cui la Pubblica Amministrazione può rispondere a una richiesta di cittadinanza: in origine, il termine per concludere l’iter era di due anni (730 giorni); con il cosiddetto Decreto Salvini del 2018 è stato esteso a quattro, per poi tornare a due – prorogabili fino a tre – con il Decreto Lamorgese del 2020. Ma anche questi sono tempi relativi: possono essere sospesi se l’amministrazione ritiene necessario acquisire ulteriori informazioni o documenti integrativi. E se i tempi si allungano, il richiedente può sollecitare l’intervento sostitutivo al Capo dell’Ispettorato Generale di Amministrazione. Se anche questo non basta, entro un anno dalla scadenza dei termini si può presentare ricorso al TAR del Lazio.
In altre parole, possono passare anche quattro anni dalla richiesta alla concessione, un tempo lunghissimo e francamente con poche giustificazioni per chi, cresciuto in Italia e spesso con pochissimi legami con il paese d’origine, si ritrova a dover spendere energie e denaro per ottenere qualcosa che appare naturale, ma naturale non è.
Basta mettere in fila i documenti richiesti per accorgersene: documento di riconoscimento; codice fiscale; certificato di nascita in lingua originale, legalizzato e munito di traduzione legalizzata; certificato penale del paese di origine (e degli eventuali altri Paesi di residenza), legalizzato e anch’esso munito di traduzione legalizzata; titolo attestante la conoscenza della lingua italiana; dichiarazioni dei redditi degli ultimi tre anni, proprie e dei familiari conviventi se concorrono al reddito; pagamento del contributo obbligatorio di 250 euro e marca da bollo da 16 euro.
A questo si aggiungono i requisiti: residenza ininterrotta per dieci anni se sei extracomunitario, o quattro se sei europeo, e un reddito minimo di 8.263,31 euro lordi per almeno tre anni. In teoria puoi fare domanda a diciott’anni, in pratica è una possibilità quasi solo formale, spiega Ruwani: “Chi lavora da almeno tre anni a diciott’anni? Pochissimi. Per chi studia o ha contratti saltuari, è difficilissimo. Nessuno te lo dice, te lo ritrovi davanti come un ostacolo improvviso: arrivi a vent’anni e ti rendi conto che, praticamente, devi aspettarne altri dieci per poterci provare davvero”.
Questo è il primo ostacolo, ma non l’unico. Andrei, 34 anni, conosce bene questo senso di sospensione. È arrivato in Italia con la sua famiglia quando era bambino. “Ho fatto gli ultimi due anni di elementari, le medie, il liceo a Vicenza e poi mi sono laureato a Padova. Parlo molto meglio l’italiano che il rumeno. E mi sento italiano”. Ma non lo è, né può diventarlo a breve, perché i requisiti burocratici sono rigidi e non tengono conto della particolarità di alcune situazioni: “Dal 2018 lavoro all’università, ho fatto un dottorato concluso nel 2023 e adesso ho un assegno di ricerca. Prima del 2018 non avevo reddito, dunque non avevo nemmeno avviato la trafila, sapevo fosse impossibile. Una volta iniziato a lavorare, ho scoperto che i redditi da dottorato e assegno non sono ‘validi’, perché non soggetti a IRPEF, ma assimilati a borse di studio con tassazione diversa. Lo Stato stesso che mi paga un assegno mensile non riconosce questo genere di redditi: per l’Italia è come se non avessi mai guadagnato un euro. Assurdo”.
Andrei, dunque, dovrebbe aspettare di diventare professore associato o di essere assunto da un altro datore di lavoro, poi attendere i tre anni per ottenere i requisiti di reddito necessari, e infine almeno altri due, se è fortunato, per attendere la risposta del ministero dell’Interno. La normativa è così paradossale che un lavoratore comunitario trasferitosi in Italia a 25 anni può ottenere la cittadinanza più rapidamente di un bambino arrivato nel paese a 10, ma che ha scelto di iscriversi all’università e dunque difficilmente avrà un reddito superiore agli 8 mila euro necessari ai diciott’anni.
Ma le assurdità burocratiche non finiscono qui. La residenza deve essere continuativa. Nel concreto, è un requisito molto limitante, soprattutto per chi vuole intraprendere un percorso accademico, per esempio: “Non posso fare periodi di ricerca all’estero spostando la residenza, perché altrimenti il conteggio riparte da capo”, spiega ancora Andrei. “Questo rallenta la mia carriera: se voglio diventare italiano, non posso cambiare università, né migliorare il mio curriculum o cogliere opportunità lavorative”. Questo, naturalmente, vale anche per i bambini: “I dieci anni devono essere continuativi. Mio padre giocava a hockey professionistico, siamo andati tre anni in Spagna: ho dovuto ricominciare da zero. È bastata una pausa per far ripartire tutto”, racconta Victoria, nata in Italia da genitori brasiliani e che ha ottenuto la cittadinanza a ventitré anni, perché, ammette colpevolmente, non ha fatto richiesta entro un anno dal compimento della maggiore età per la procedura accelerata. In questo caso, infatti, le regole sono quasi “punitive”: se non si attivano prima dei 19 anni, anche i bambini nati in Italia devono rispettare le regole che valgono per gli altri, e dunque dimostrare il reddito e la residenza continuativa. Victoria ha deciso di trasformare la sua esperienza in qualcosa di utile, ha lanciato una pagina Instagram, che raccoglie in ogni post le storie di stranieri divenuti italiani o in procinto di diventarlo: uno spaccato sulla diversità che lentamente sta prendendo piede in Italia.
La lista degli ostacoli non è ancora finita. Ci sono le pratiche, e non è sempre semplice raccogliere i documenti richiesti dallo Stato italiano: “Ti chiedono il certificato di nascita originale, tradotto in italiano, con il timbro del notaio”, racconta Victoria, “poi lo verificano, magari ti chiedono di rettificare qualcosa. Ora la fedina penale si può scaricare online, almeno in Brasile, ma fino a poco fa dovevi tornare fisicamente nel paese d’origine e non sempre è semplice, soprattutto per chi viene da paesi poco sicuri. Ogni passaggio costa tempo e denaro”.
Tutto questo favorisce inevitabilmente studi privati a cui si rivolgono in molti, e che gestiscono le pratiche burocratiche. Lo Stato, in qualche modo, ha creato un mercato anche piuttosto florido. Basta una rapida ricerca su Google per trovare decine di studi professionali che si occupano di questa branca del diritto, alcuni in maniera esclusiva. Susanna Tosi è la fondatrice di avvocatocittadinanza.it, una rete composta da circa 40 professionisti – tra avvocati, mediatori e insegnanti – distribuiti in otto studi in tutta Italia. “Facciamo solo cittadinanza, tutto il giorno”, racconta. Ogni pratica viene seguita da un team dedicato, e per i documenti da reperire all’estero – soprattutto nei casi che riguardano richiedenti africani – è prevista una figura specifica: “Abbiamo mediatori che si occupano proprio di questo, così i clienti non devono nemmeno uscire dall’Italia”, come invece dovrebbero fare se seguissero in autonomia la propria pratica a causa della burocrazia di molti Stati stranieri, che non permettono di richiedere i documenti necessari nei consolati o nelle ambasciate sul territorio italiano. Le parcelle variano da caso a caso, ma la tariffa base parte da duemila euro.
Secondo Tosi, l’iter non può essere affrontato senza una guida esperta, perché rispettare i requisiti non è di per sé sufficiente: “Bisogna dimostrare di essere, in qualche modo, ‘speciali’, di essere una risorsa per lo Stato italiano. La legge dà spazio al potere discrezionale dello Stato, e il nostro lavoro è evitare che diventi arbitrio, contestualizzando e valorizzando le storie personali dei nostri clienti”. Così, il suo studio si occupa di preparare dossier e accompagnare le pratiche, che una volta inoltrate tramite il portale del ministero vengono integrate da informazioni più precise, che rendono più difficile ai funzionari rigettare le richieste: “Lo Stato, per esempio, potrebbe rigettare una domanda se un tuo familiare ha precedenti penali. È una prassi ingiusta, e per evitarla si rende la pratica più solida, si ‘racconta’ la potenzialità del richiedente”.
L’avvocata Tosi guarda al referendum con pragmatismo, ma anche con una profonda convinzione personale: “È chiaro che, se venisse abrogata l’attuale legge e i termini di residenza fossero ridotti da dieci a cinque anni, molte più persone potrebbero accedere alla cittadinanza. Ma non è solo una questione numerica: ci sono individui che, anche dopo cinque anni, hanno già dimostrato di essere una risorsa per il paese. La cittadinanza permetterebbe loro di sentirsi pienamente parte della comunità, riconosciuti e valorizzati. Quando lo Stato mostra fiducia e accoglienza, le persone rispondono con impegno e gratitudine: è un meccanismo umano, che riguarda tutti noi”.
I problemi con l’Italia sono quindi molti e si affiancano a quelli con il paese di origine, che non ha grande interesse a facilitare la situazione di chi, dopotutto, intende richiedere una nuova cittadinanza. Rinnovare il passaporto, per esempio, può essere un’odissea se si ha a che fare con la burocrazia dei paesi extraeuropei, come mi racconta Ruwani, originaria dello Sri Lanka, paese non molto collaborativo, per usare un eufemismo, chiarisce sorridendo amaramente: “Sei ostaggio del funzionario che ti trovi di fronte. Per rinnovare il passaporto all’ambasciata, qualche anno fa, mi hanno detto che, essendo cresciuta in Italia, dovevo tornare in Sri Lanka per rifare la carta d’identità e poi da lì chiedere il passaporto. Una follia. Alla fine, dopo lamentele e tempo perso, hanno cambiato idea, e me lo hanno rilasciato qui, dopo mesi di attesa dovrebbe essere pronto ma ancora non me l’hanno consegnato”.
La trafila richiede una certa dose di volontà, tempo e struttura psicologica, che non tutti hanno. La questione psicologica è spesso sottovalutata, ma entra in gioco quando la richiesta di cittadinanza implica tutti questi passaggi, che spesso sono angosciosi per chi deve sottoporsi a un percorso che Andrei definisce “tortuoso e doloroso”, e che genera frustrazione e anche un certo sconforto, come dice ancora Ruwani: “Io sono cresciuta qui. Le prime volte andare all’ambasciata mi sembrava qualcosa di strano, quasi violento. Era come se mi ricordassero, ogni volta, che non appartenevo né qui né lì. Dovevo ottenere un documento da un paese che non sentivo mio, per vivere in un paese che non mi riconosceva come sua”.
Peraltro, non essendo cittadina, Ruwani, come gli altri italiani extracomunitari, deve occuparsi del permesso di soggiorno, che è a tempo indeterminato, ma va rinnovato ogni dieci anni: “Per aggiornare i dati, l’ufficio immigrazione vuole vedere il passaporto. Ma io non ce l’ho, sto ancora aspettando che l’ambasciata me lo consegni. È tutto contorto, sempre un po’ assurdo”. Anche Andrei racconta della trafila burocratica del passaporto, che va anch’esso rinnovato, e non sempre nella propria città di residenza: “Per viaggiare ho bisogno del passaporto rumeno, perché la carta d’identità per i cittadini non italiani non vale per l’espatrio. Quindi, da Padova dove lavoro, devo andare per ogni rinnovo al consolato a Trieste, prendere un giorno di ferie, aspettare novanta giorni, poi tornare. E se dimentichi un documento, sei fregato”.
Per gli adulti, gli adempimenti burocratici fanno rima con “un giorno di ferie buttato”, dice Andrei; per i bambini, invece, aggiunge Ruwani, ciò vuol dire perdere un giorno di scuola, a volta anche più di uno: “Ogni tanto questi obblighi ti ricordano la situazione di disuguaglianza nella quale cresci. I miei compagni potevano partire per i viaggi scolastici o familiari senza problemi, io invece dovevo chiedere un visto. Oppure dovevo assentarmi da scuola per andare a rinnovare il permesso di soggiorno. Sembrano dettagli, ma non lo sono nella vita di tutti i giorni”.
Non abbiamo a disposizione dati anagrafici specifici sui nati in Italia da genitori stranieri né sul numero di bambini nati all’estero ma cresciuti in Italia, ma secondo una stima di Elena de Filippo, fondatrice della cooperativa sociale Dedalus, che ha curato un interessante studio sul tema “Traiettorie: Storie di cittadinanza di ragazzi e ragazze con background migratorio” di prossima pubblicazione, in Italia vivono tra i 2 e i 2,3 milioni di giovani stranieri che, pur essendo nati nel paese o essendovi arrivati da piccoli, non hanno ancora acquisito la cittadinanza italiana. Si tratta in larga parte di bambini, adolescenti e giovani adulti appartenenti a quelle che i demografi chiamano “generazioni decimali” – ovvero arrivati in Italia entro i 17 anni – oppure di figli di immigrati nati in Italia, ma ancora formalmente stranieri. Una quota che rappresenta oltre due terzi del totale potenziale di giovani stranieri alla nascita registrati dagli anni Ottanta a oggi, a conferma del fatto che la cittadinanza resta un traguardo parziale, nonostante radicamenti di lungo corso, percorsi scolastici interamente italiani e, spesso, una vita trascorsa interamente nel paese.
Sembra (sembra?) che la burocrazia italiana abbia fatto una scelta implicita per limitare le naturalizzazioni: il logoramento. Ottenere la cittadinanza non significa semplicemente rispettare un requisito, ma superare una muraglia di carte, attese e ostacoli che sembrano fatti apposta per scoraggiare, un girone infernale costruito quasi esplicitamente per farti dire: ho capito, ci rinuncio.
Se hai dei suggerimenti su tematiche da affrontare e/o dritte di ogni tipo, scrivimi pure sui miei account social. Se vuoi informazioni sull’abbonamento scrivi a: info@nredizioni.it
Leggendo l'articolo mi è sorto un senso di nausea e di rigetto per il mio paese. È inconcepibile una trafila così contorta verso cittadini italiani come sono in pratica coloro che arrivano qui da piccoli o che nascono in Italia. Da vergognarsi...