
L’Italia che spara – Campanili n. 25
Le armi sono molto più diffuse di quanto pensiamo, anche se i controlli delle autorità sono stringenti. Ma perché un italiano su dieci è armato? Cosa cerca chi va abitualmente al poligono? Un’indagine
“Guarda che vado spesso al poligono a sparare. Chiunque può andarci, è un’esperienza interessante”. Ho sentito questa frase da una persona che frequento abitualmente, e che non immaginavo avesse una passione di questo tipo. Non ho mai avuto esperienza diretta di armi da fuoco, né un interesse o un’inclinazione naturale per la questione, e immaginavo che il loro utilizzo fosse residuale, confinato a una esigua minoranza di persone. Mi sbagliavo.
Nel 2023, secondo una recente inchiesta realizzata da Sky TG24, il numero di italiani che possedevano almeno un’arma ammontava a circa 4,7 milioni di persone. In pratica, un italiano maggiorenne su dieci è armato secondo le statistiche ufficiali, anche se non tutti sono effettivamente abituati a maneggiarle: il totale complessivo dei porti d’arma in corso di validità nel 2023 è di 1.174.233, un numero elevato anche se in leggero calo nel corso degli ultimi dieci anni. Questo perché, come vedremo, si può possedere un’arma anche senza avere un porto d’armi, così come chiunque, previa iscrizione al tiro a segno nazionale, visita medica e un corso di maneggio, può frequentare il poligono di tiro, come il mio conoscente, che infatti non intende prendere il porto d’armi.
Ma perché si spara? Le risposte variano, ma molte persone identificano l’utilizzo delle armi come una vera e propria “passione”. Alessandro, avvocato sulla trentina, ha sempre avuto curiosità per “tutto ciò che ha a che fare con la meccanica: motori, aerei e quindi anche armi”, e avvicinarsi a questo mondo è stato dunque semplice, per quanto, non avendo nessuno in famiglia appassionato al genere, è stato l’incontro con un conoscente che praticava tiro sportivo ad alto livello a rendere concreta la sua curiosità. Da lì, ha continuato a coltivare questo interesse: “Ho un porto d’armi sportivo, e fucili per le diverse discipline: tiro al volo, tiro a segno, ma non solo. Ho anche partecipato al tiro operativo, la simulazione di conflitto in situazioni urbane che organizza l’Anaim, l’Associazione Nazionale Arditi Incursori Marina”. Alessandro traccia una linea netta tra il suo modo di utilizzare le armi e quello per difesa personale: “Sono due mondi diversi, il porto d’armi sportivo è diffuso, dopotutto serve a praticare uno sport nel quale gli italiani sono fortissimi a livello olimpionico; il porto per difesa personale è molto raro, non conosco nessuno che lo abbia. Per me non sono paragonabili”.
La legislazione italiana sulle armi considera, in effetti, in modo molto diverso la motivazione per la quale si richiede l’autorizzazione per portare con sé un’arma, che è una licenza specifica e non sovrapponibile all’utilizzo. Esistono tre tipologie di licenza. La prima è quella finalizzata alla difesa personale, che permette di portare con sé l’arma per fronteggiare un pericolo, ha la durata di un anno, ed è soggetta a un controllo molto stringente dell’autorità pubblica; la seconda, invece, viene rilasciata per il trasporto di armi per uso sportivo, ha una durata di cinque anni e comporta l’obbligo di iscrizione a una sezione di tiro a segno nazionale: consente di avere con sé la propria arma soltanto nel tragitto tra la propria abitazione e i campi di tiro a volo o a segno regolari. Infine, esiste il porto d’armi per impiego venatorio, una licenza molto simile a quella per uso sportivo ma che consente di andare a caccia armati nelle aree autorizzate, e anche questa di durata quinquennale.
Al di là della normativa, la discrezionalità delle autorità è piuttosto elevata, specialmente per il porto d’armi finalizzato alla difesa personale. In una sentenza del 2023, il Consiglio di Stato ha ricordato che: “La regola generale è il divieto di detenzione delle armi, al quale l’autorizzazione di polizia può derogare in presenza di specifiche ragioni e in assenza di rischi anche solo potenziali”. Naturalmente questa autorizzazione “è espressione di una valutazione ampiamente discrezionale”, e difficilmente sindacabile dall’individuo, che deve “sempre provare l’esistenza di condizioni attuali e concrete di bisogno che giustificano la concessione dello speciale titolo”. In poche parole, ottenere un porto d’armi per difesa personale è molto complesso, perché la situazione di pericolo non deve essere astratta, ma concreta, effettiva: una generale sensazione di insicurezza è insufficiente. Negli ultimi anni le autorità hanno molto irrigidito i parametri: dal 2003 al 2023 la concessione di questa tipologia di licenze si è dimezzata, e oggi sono soltanto 11 mila gli italiani autorizzati a portare con sé un’arma per difendersi. La complessità della normativa, tuttavia, è abbastanza sconosciuta, come mi è capitato di constatare discutendo con diverse persone che hanno accarezzato l’idea di acquistare una pistola per difesa personale.
Alberto ha da poco finito l’università e oggi abita in una grande città nordeuropea, ma ha vissuto a Milano fino a poco tempo fa, e sentendosi insicuro, aveva iniziato a informarsi per comprare un’arma da fuoco per difesa personale. Con il suo trasferimento all’estero l’esigenza è venuta meno, ma mi conferma che, se dovesse rientrare in Italia, riprenderebbe in considerazione l’idea: “Se vivessi a Milano mi sentirei più sicuro con un’arma, ma semplicemente per mostrarla a eventuali malintenzionati: è una forma di deterrenza, non riesco nemmeno a immaginare di utilizzarla concretamente”. Non è la sola persona con cui ho parlato che mi ha fatto un ragionamento simile, a dimostrazione di quanto il tema sia sottovalutato: in questi casi è praticamente impossibile ottenere un porto d’armi per difesa personale.
Se sul porto la legislazione è piuttosto stringente, sulla detenzione lo è meno: chiunque può acquistare, ereditare e detenere armi, ma per possederle e trasportarle fino al proprio domicilio è necessario acquisire il nulla osta del questore, un’autorizzazione di cui i titolari di porto d’armi naturalmente non necessitano. Non solo, i limiti alla quantità di armi sono piuttosto laschi: è possibile detenere fino a tre armi comuni da sparo, dodici armi sportive e un numero illimitato di fucili da caccia. Questi limiti possono, tuttavia, essere superati con la richiesta della licenza per collezione, che permette di detenere una quantità illimitata di armi, ma senza il munizionamento, che è anch’esso regolamentato. È possibile detenere fino a 200 pezzi di cartucce per pistola o rivoltella, mentre per le cartucce caricate a pallini la denuncia non è obbligatoria fino a un massimo di 1000 pezzi e, in ogni caso, non si possono detenere più di 1500 pezzi.
Forse proprio per questi limiti poco stringenti, l’industria delle armi sportive italiana gode di ottima salute. L’azienda più nota, la Beretta, fattura circa 1,4 miliardi di euro, dei quali l’80 per cento deriva dalle attività civili o sportive, ma esistono moltissimi marchi italiani di rilevanza mondiale, Perazzi, Caesar Perini, Benelli, Fabarm, che dominano da anni questo settore di mercato. Alle Olimpiadi di Tokyo, 16 medaglie su 18 totali sono state vinte da atleti che hanno utilizzato fucili italiani, mentre 11 su 18 sono quelle vinte con munizioni italiane, e circa il 90 per cento delle armi utilizzate ai giochi erano italiane. A Parigi, invece, 109 tiratori su 117 totali hanno utilizzato fucili italiani e tutte le medaglie sono state vinte utilizzando armi tricolori.
Il mondo del tiro sportivo è, come si può intuire, a maggioranza maschile. Ma esiste una nutrita minoranza femminile che frequenta i poligoni. “Mi capita di rado di incontrare donne, e forse proprio per questo ho sempre trovato affascinante il mondo delle armi, mi intriga fare qualcosa di inaspettato”, mi spiega Alice, una donna sulla quarantina, che ha da poco completato tutta la trafila per richiedere un porto d’armi per uso sportivo. Come molti italiani, alla morte del nonno la sua famiglia ha trovato il suo fucile a casa “nascosto in una carta di giornale”, ma per una serie di equivoci burocratici e di scarsa informazione, non ha fatto richiesta per la detenzione, convinta che per tenere l’arma fosse necessario ottenere il porto d’armi. “Dopo un po’ mi sono resa conto che non è così, ma è stata una spinta per richiederlo”, continua Alice, che da quel momento ha iniziato a informarsi e a frequentare il tiro a segno di una grande città del nord: “Oltre al vago interesse, per me all’inizio era una questione utilitaristica, che dopo un po’ si è trasformata in passione: la concentrazione è fondamentale per sparare, mi piace lo stato psicologico che provo quando sono di fronte al bersaglio. E poi, non lo nego, avere un’arma in mano dà una sensazione di potere e di capacità, alla fine stai facendo una cosa che la maggior parte delle persone non sa fare”.
La questione della concentrazione è ricorrente nei miei interlocutori, così come la voglia di isolamento dal resto del mondo: d’altronde, quando si sta davanti a un bersaglio, tra due pareti di cemento armato, in una linea di tiro in un piano interrato, comunemente chiamato “tunnel”, in cui si spara con armi anche di grosso calibro, la sensazione di distacco è quasi totalizzante. Anche Alessandro introduce questo tema quando discutiamo delle motivazioni che lo portano a sparare: “Quando qualcuno dice che va al poligono ‘per sfogare’ a me sembra sempre una risposta un po’ pericolosa. Io, come molte altre persone, lo faccio per concentrarmi, per spostare la mia attenzione dalla confusione della settimana lavorativa. Mi piace anche la precisione di tutto ciò che c’è intorno, i paradigmi di sicurezza, la cura dell’oggetto e della respirazione. E poi c’è la soddisfazione di vedere miglioramenti, che sono lenti”.
Questo aspetto si riscontra anche tra chi va a caccia, una tipologia di portatore d’armi, al contrario di quella per uso sportivo, in rapido declino: nel 2002, i detentori di porto per cacciare erano 884 mila, nel 2023 sono diventati 571 mila, mentre le licenze per uso sportivo sono passate da 127 mila a 549 mila. Marco, funzionario in pensione e titolare di un porto d’armi per uso venatorio, mi racconta che anche per lui la precisione è un aspetto essenziale della vita, e che l’utilizzo e la conoscenza delle armi mettono in risalto questo tratto del suo carattere. Per quanto riguarda la caccia, tuttavia, ammette che la pratica è in profondo declino: le riserve dove praticarla sono molto costose, e la fauna libera non esiste praticamente più; gli animali da cacciare, spesso uccelli, si “prenotano” e si pagano profumatamente: “La vera bellezza della caccia, per me, è ormai è far divertire il mio cane, un bracco italiano”, spiega Marco. “Io vado a caccia solo per lui, la soddisfazione è vederlo fiutare la preda, il fagiano che cerca di scappare. Se poi non sparo, è uguale. Mi sono divertito lo stesso”, conclude.
Il declino si spiega con tanti fattori. Il punto principale è che sempre meno italiani vivono nelle aree interne, in campagna, dove è più semplice entrare in contatto con le riserve di caccia ed è più naturale avere un fucile in casa, proprio perché cacciare, fino alla metà del Novecento, era una pratica diffusissima, “normale”. Oggi tramandare la pratica, più ampia e complessa del semplice tiro sportivo, è sempre meno scontato, e infatti i due figli di Marco non hanno alcuna intenzione di seguire le orme del padre. Ma esiste anche una ragione economica: abbattere un fagiano o una starna può partire da circa 30/35 euro per un solo capo, ma la maggior parte delle riserve prevede una quota minima di capi (in genere sei), mentre un’uscita di caccia sportiva può costare almeno 100 euro a persona, senza contare i capi abbattuti, che aggiungono 25 euro l’uno. Per chi sceglie pacchetti annuali, si va da oltre mille euro per 33 capi fino a più di tremila per 110. I costi, però, sono un tema comune a tutte le attività legate alle armi da fuoco: i fucili per il tiro sportivo costano più di 500 euro, e per sparare un centinaio di colpi, circa mezz’ora, il costo varia dai 30 ai 50 euro.
“Il costo è effettivamente un limite”, ammette Alessandro, che mentre parliamo ricorda la questione fondamentale della sicurezza: “Sono strumenti inventati per uccidere, non bisogna mai dimenticarlo e nell’ambiente si dice che sono proprio le armi scariche a uccidere le persone, perché basta un attimo di disattenzione per mettere se stessi e gli altri in situazioni di pericolo”. E forse questo è uno dei pochi casi nei quali è giusto ammettere che la discrezionalità dell’autorità pubblica nel concedere i permessi possa essere un fattore positivo.
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