Produrre meno, ereditare di più – Campanili n. 27
La produzione industriale è in calo da anni, si investe poco e si trasferisce sempre più ricchezza per via ereditaria. L’Italia sta costruendo un’economia che disincentiva l’imprenditorialità?
Da qualche mese, sul sito de Il Sole 24 Ore, è stato inserito un “contatore della crisi” che calcola i giorni consecutivi di calo della produzione industriale italiana a partire dal 1° febbraio 2023, il primo mese che ha fatto registrare un segno negativo. Da allora la tendenza non si è mai invertita, e potrebbe anzi aggravarsi nei prossimi mesi, complici l’enorme incertezza in cui è piombata l’economia mondiale dopo l’elezione di Donald Trump, l’annuncio di nuovi dazi, la loro sospensione e la possibile reintroduzione.
Nel frattempo, però, una ricchezza continua a muoversi. Ma non verso il futuro: verso il passato. Lo scorso marzo, l’Economist ha dedicato un numero al nuovo fenomeno che attraversa gran parte delle economie occidentali: “La nuova ereditocrazia: l’inquietante ascesa della ricchezza ereditaria”. Il settimanale britannico si è concentrato su Regno Unito e Stati Uniti, citando appena di sfuggita altri paesi. Ma in Italia il fenomeno è già realtà: secondo il sito lavoce.info, successioni e donazioni valgono ormai il 20 per cento del PIL, quasi tre volte più che nel 1995.
A completare il quadro, c’è l’aumento costante dell’emigrazione qualificata. Nel 2024, oltre 150 mila persone hanno lasciato il paese, con un incremento del 36 per cento rispetto all’anno precedente. A partire sono soprattutto i più istruiti: oltre 130 mila emigrati dello scorso anno sono laureati. Un numero che dice molto sulle difficoltà incontrate nel mercato del lavoro italiano, in cui – nonostante l’occupazione complessiva abbia raggiunto un record storico – la quasi totalità dei nuovi posti è andata a lavoratori con più di cinquant’anni. Oggi, questa fascia d’età rappresenta oltre il 40 per cento degli occupati, mentre vent’anni fa era poco più del 20 per cento: un paese sempre più anziano.
Metto insieme queste tre considerazioni perché il dato sul calo della produzione industriale, peraltro ampiamente sottovalutato da larga parte dell’opinione pubblica e soprattutto dal governo – il ministro delle Imprese Adolfo Urso, lo scorso febbraio, aveva parlato di imminente “ripresa” del settore – da solo non restituisce un quadro completo del momento storico che stiamo attraversando.
Certo, i numeri parlano da soli: nel 2024, la produzione industriale è calata del 3,5 per cento, e anche nei primi due mesi di quest’anno la tendenza resta negativa, con diminuzioni preoccupanti in diversi comparti. Tessile-abbigliamento e mezzi di trasporto sono i settori più colpiti, in calo rispettivamente del 13,5 per cento e del 14 per cento. Anche il comparto dei macchinari è in forte sofferenza, con una contrazione del 9,5 per cento. Un dato che segnala un problema più profondo: i beni strumentali – macchinari, impianti, attrezzature – sono la base degli investimenti produttivi. Se la loro domanda diminuisce, significa che non ci si aspetta di produrre molto in futuro, un segnale di adeguamento a un contesto in contrazione. Le aziende che producono macchinari, essenziali per tutte le altre imprese, sono infatti le prime a registrare un rallentamento. Ogni processo produttivo – dall’inscatolamento al packaging, dalla meccanica di precisione nella cantieristica all’automotive – dipende da questi strumenti. Se si fermano, si blocca l’intero sistema.