Perché gli italiani vanno in ferie ad agosto? – Campanili n. 10
Indagine su un’abitudine radicata nella cultura delle famiglie, che però sta cambiando
Un discorso di Sergio Marchionne sul provincialismo italiano è diventato virale dopo la sua scomparsa, avvenuta il 25 luglio di sei anni fa. E il suo aneddoto sulle ferie si ripresenta sui social media alla vigilia di ogni pausa agostana. L’ex amministratore delegato della Fiat, e artefice del suo rilancio, parlava spesso di cultura aziendale e bacchettava il sistema italiano in modo ironico, ma fermo. Di fronte agli studenti dell’Università Bocconi, nel 2013, si soffermò sull’abitudine a chiudere le aziende per tutto il mese di agosto, o quasi: “All’estero si impara moltissimo, si vive una realtà completamente diversa da quel tipo di comfort che abbiamo noi in Italia, di andare al bar, di fare le stesse cose che facciamo con una certa abitudine. Il fatto che le ferie noi le prendiamo in agosto. Nel 2004 perdevo 5 milioni al giorno. Sono arrivato in azienda il primo giugno, poi sono stati giorni frenetici, e luglio l’ho passato girando per il mondo. Torno in Italia, vado in ufficio ad agosto e non c’era nessuno”. Marchionne fa una pausa, alza le sopracciglia, l’uditorio ride, il manager soddisfatto ripete, più rapido: “5 milioni al giorno, eh. Chiedo: ‘la gente dov’è?’. ‘Ah, sono in ferie’. Ho detto: ‘ma in ferie da cosa?’. Un’azienda che fondamentalmente è una multinazionale. L’atteggiamento estremamente provinciale di dire ‘noi siamo la FIAT e come tale stabiliamo quando il mondo va in ferie’. È una pirlata, no? Non è assolutamente vero, il mondo se ne frega”.
Dal 2004 sono passati vent’anni, e la situazione si è leggermente evoluta. Ma l’Italia non è diventata improvvisamente gli Stati Uniti, dove il concetto stesso di ferie retribuite non esiste. La nostra abitudine a prendere una lunga pausa in mezzo all’estate è ancora radicata, con delle ragioni, pratiche e culturali allo stesso tempo, che vengono da lontano: le scuole chiudono, il clima è afoso, il tempo è ragionevolmente sereno ed è più comodo, per le famiglie italiane, organizzarsi. Spesso agosto implica una vacanza stanziale in una località di mare. Sembra sia così da sempre, ma è un’abitudine relativamente moderna.
Gli italiani riscoprono il mare soltanto all’inizio del Novecento, grazie alle imponenti bonifiche che rendono praticabili le coste, fino a quel momento infestate dalla malaria. Sembra controintuitivo, ma prima di questi interventi la popolazione viveva una separazione quasi fisica dalle coste: in un rapporto consegnato dal senatore Luigi Torelli nel 1882, si legge che sulle 69 province dell’epoca, appena 6 (Genova, Porto Maurizio, Firenze, Massa Carrara, Pesaro, Piacenza) erano immuni dalla malaria. Delle restanti 63, 13 province avevano zone più o meno ampie con malaria debole, 29 con malaria grave e 21 presentavano un’incidenza “gravissima” della malattia. Se si prende in considerazione il triennio 1887-1889, la mortalità annuale per malaria raggiunge lo 0,6 per cento della popolazione italiana, pari a circa 17.700 persone, di cui l’83 per cento nelle regioni meridionali e nelle isole. Difficile passarvi le vacanze, pur volendo.
Ho recentemente scritto un libro sul rapporto tra l’Italia e il mare. Si tratta di una serie di reportage e saggi inediti che racconta il sentimento di paura verso il mare che emerge nelle conversazioni, nell’indifferenza e nella difficoltà a rapportarsi con l’elemento, in una contraddizione profondissima di un paese bagnato per circa ottomila chilometri e padrone delle due più grandi isole del Mediterraneo. Si intitola L’Italia ha paura del mare ed è pubblicato da NR edizioni.
Le bonifiche portate avanti dal Regno d’Italia prima, e dal fascismo poi, preparano il terreno per la riconquista delle coste, nel secondo Dopoguerra trasformate in luoghi ricettivi per le famiglie sempre più numerose. Il boom economico, l’esplosione demografica e la speculazione edilizia degli anni Sessanta rendono possibile l’acquisto a prezzi accessibili della seconda casa. Nasce così la “villeggiatura” come la conosciamo oggi: il termine, inventato durante il Settecento da Carlo Goldoni per indicare l’abitudine a trascorrere lunghi periodi nelle ville di campagna della nobiltà, diventa una parola associata alla classe media. Uno status, oltre che un’abitudine.
Andrea Garnero, economista all’OCSE, spiega la ragione dietro alle ferie ad agosto, senza arrivare ai tempi dei romani e delle Feriae Augusti, origine ancestrale del Ferragosto: “Quando il modello prevalente era quello delle fabbriche fordiste, chiudere in un periodo determinato era quasi obbligato: la catena di montaggio funziona a pieno regime, era difficile mandare avanti la produzione con metà dei dipendenti in ferie, e quindi si fermava per tutti”. Garnero nota, tuttavia, che l’abitudine è rimasta: “Oggi l’economia non gira più intorno alle fabbriche, o comunque molto meno, ma tendiamo lo stesso a fermarci più a lungo ad agosto. Non ci sono dati sistematici disponibili, conosciamo il numero di ferie retribuite annuali nei diversi paesi, ma empiricamente ognuno di noi può constatarlo. Non è necessario, ma resta semplicemente più comodo”.