Luca Zaia non sarà mai più così felice – Campanili n. 41
Il Presidente della Regione Veneto chiude la sua esperienza dopo 15 anni con un consenso elevatissimo, ma una grande paura del vuoto che verrà dopo. Un ritratto
L’adunata annuale degli alpini è un evento impressionante per chi non è abituato a sfilate di questo genere. Per oltre dieci ore, dalla mattina al tramonto, decine di migliaia di persone procedono dietro ai loro striscioni e stemmi di appartenenza. È un flusso costante e ordinato, quasi indistinguibile nelle sue ripetizioni. Nel 2024 la sede del raduno è Vicenza e, come da tradizione, la sfilata passa davanti al palco delle autorità, dove si alternano ministri, parlamentari e rappresentanti civili e militari: arrivano, presenziano per un tratto, poi vanno via. Tutti tranne uno, che rimane seduto al suo posto, sorridente e perfettamente a suo agio. D’altronde, è a casa sua.
Luca Zaia resta lì per ore. Da dietro alla sua transenna saluta quasi uno per uno gli alpini che passano, e loro si rivolgono a lui direttamente. Molti lo chiamano per nome, altri gli dicono “ciao presidente” con una naturalezza che suggerisce familiarità, anche se probabilmente non l’hanno mai incontrato davvero. Ma è questo il punto: da quando nel 2005 è diventato vicepresidente della Regione, e poi presidente cinque anni dopo, Zaia è entrato stabilmente nell’immaginario collettivo del Veneto. Alla fine della giornata – la più partecipata di sempre, con centomila alpini che sfilano per tredici ore – festeggia: “È stata l’adunata del secolo. Se fino a ieri quella di Treviso era la più importante per il Veneto, quella di quest’anno a Vicenza l’ha superata”. La frase, più che un bilancio, è una dichiarazione identitaria: racconta bene chi è e cosa ha rappresentato per la sua regione un presidente rieletto nel 2020 con il 76,8 per cento dei voti, la percentuale più alta nella storia delle elezioni regionali italiane, e arrivato oggi alla fine del suo terzo mandato.
Eppure, in queste elezioni regionali dal risultato scontato, dove il candidato del centrodestra è il salviniano Alberto Stefani e quello del centrosinistra Giovanni Manildo – conosciuto, secondo l’ultimo sondaggio Ipsos, da appena il 43 per cento dei veneti – si parla soltanto di lui. Perché Zaia non è semplicemente il presidente della Regione. È il doge, una figura che appartiene più alla continuità storica del territorio che alla contingenza della politica, un pezzo di paesaggio umano: per mesi ha provato a ricandidarsi cambiando le regole del gioco, ma alla fine ha dovuto rassegnarsi. Come i grandi sportivi al tramonto della carriera che non riescono a vedersi in un altro luogo che non sia un campo da gioco. A 57 anni, però, è difficile immaginare di andare in pensione. Anche perché la frase che ricorre di più parlando con chi vive qui – e conosce bene la politica locale – è indicativa della compenetrazione tra territorio e presidente: “Zaia incarna il Veneto”, mi ripetono diverse persone.
E lo incarna anche nella sua struttura geografico-amministrativa: con 4,8 milioni di abitanti è la quarta regione italiana, ma non ha nessuna grande città. Verona, la più popolosa, ne conta 255 mila, e nei capoluoghi vive meno di un quinto dei veneti. La regione è un mosaico di comunità piccole e medie, sparpagliate in un paesaggio che alterna capannoni, rotonde, colline vitate, montagne dai riflessi rosa e spiagge dal mare opaco, una frammentazione prima di tutto identitaria: “Il Veneto non è una regione di unioni ma di campanili, dove il mondo agricolo conta tantissimo, dove le tradizioni locali sono fortissime e radicate, e che non ha il problema delle grandi periferie urbane”, analizza lo scrittore veneziano Giovanni Montanaro.
Il contesto era perfetto per una personalità come Zaia, che prima di diventare l’uomo forte della regione – e per due anni anche ministro dell’Agricoltura – ha seguito tutto il cursus honorum degli amministratori locali, dopo una lunga serie di lavori che ama ricordare: “Ho aperto la mia prima partita Iva a diciotto anni, ho fatto il cameriere, l’uomo delle pulizie, il muratore, il docente privato di chimica, l’istruttore di equitazione, l’operaio in un’impresa di pellami”, e soprattutto il PR nelle discoteche mentre studiava Agraria, materia in cui si è laureato.
Un particolare fondamentale per capire il suo successo, perché l’importanza del mondo agricolo in Veneto non è solo economica: è identitaria. Ed è su questo che Zaia ha costruito una parte decisiva della sua aura. Da ministro dell’Agricoltura, tra il 2008 e il 2010, ha seguito due dossier che i veneti non hanno mai dimenticato: la trasformazione del prosecco in una Denominazione di origine controllata (DOC) riconosciuta e protetta, e il percorso per far diventare le colline di Valdobbiadene patrimonio dell’Unesco. Due conquiste che che ancora oggi gli vengono attribuite come gesti fondativi, quasi mitologici, della sua leadership.
Marina Montedoro, oggi presidente dell’Associazione per il Patrimonio delle Colline del Prosecco Conegliano Valdobbiadene e direttore di Coldiretti Veneto, all’epoca era appena laureata e lo seguì a Roma come direttrice dell’ufficio ricerca del ministero. Fu lei a seguire la costruzione del dossier Unesco, a cui si unì poi quello sulla DOC prosecco – oggi il primo vino italiano esportato al mondo – con le due categorie più ristrette DOCG “Conegliano Valdobbiadene-Prosecco” e “Asolo-Prosecco” e il relativo disciplinare di produzione. “Con grande lungimiranza”, racconta, “Zaia elaborò un dossier per dimostrare perché le colline di Conegliano Valdobbiadene potessero diventare patrimonio dell’umanità, anticipando di fatto il riconoscimento del 2019. Da allora le presenze turistiche sono raddoppiate. Il vantaggio non è solo agricolo, ma per tutto il territorio. Lui ha sempre avuto un’attenzione particolare per l’agroalimentare, che è anche il primo settore in cui ha lavorato ed è oggi il settore che guida la crescita del paese”.
È in quegli anni che Zaia costruisce il nucleo simbolico della sua leadership: un presidente che non solo governa, ma “riporta a casa”, da Roma, risultati concreti. L’identità torna, così come l’incarnazione. Per Roberto Marcato, assessore regionale allo Sviluppo Economico, il “modello Zaia” non è solo leadership, ma metodo e radicamento culturale. “Siamo stati gli interpreti più autentici del Veneto”. Marcato sostiene che molti osservatori – politici, istituzionali o mediatici – faticano a comprendere la specificità di una regione “dove il tema identitario è molto, molto forte”. Il metodo, tuttavia, è stato decisivo quanto l’identità. La giunta ha scelto di dialogare con il territorio prescindendo dall’appartenenza politica, anteponendo l’interesse locale a ogni logica di schieramento. Marcato parla di una “commistione naturale” tra i diversi livelli istituzionali e comunitari, una rete continua che – a suo dire – ha reso possibili risposte rapide nelle fasi più drammatiche: “Nelle grandi crisi abbiamo dato il meglio”, rivendica: l’aqua granda, la tempesta Vaia, le alluvioni, e poi la pandemia, “che noi abbiamo subìto per primi”. In quei momenti, osserva, i veneti “si sono aggrappati alla governance della regione”, rafforzando il legame istituzionale.
E oggi, aggiunge Marcato, i risultati economici confermano la solidità dell’amministrazione uscente. Il Veneto dovrebbe chiudere il 2025 con la crescita del Pil più alta d’Italia (0,7 per cento, oltre la media nazionale), un dato che per l’assessore deriva da una “commistione virtuosa” tra pubblico e privato, tratto distintivo dell’economia veneta. C’è poi il grande evento, le Olimpiadi invernali Milano-Cortina 2026, cercate e volute a lungo da Zaia, che però dovrà assistere da lontano all’inaugurazione, con comprensibile frustrazione.
Naturalmente non tutti sono d’accordo con questa impostazione. Giovanni Montanaro, per esempio, analizza in modo meno entusiastico questi quindici anni di governo zaiano. Riconosce la forza comunicativa, la moderazione, persino un certo progressismo su temi etici – come il fine vita, su cui Zaia, favorevole, si batte da anni – ma indica anche i suoi limiti politici, che per alcuni aspetti coincidono con i punti di forza del presidente uscente. “C’è stata una divisione crescente tra le città e il resto della regione”, spiega. “Su molti aspetti abbiamo perso terreno. Al di là della sanità, che è problematica di per sé, ciò che manca è una prospettiva di crescita vera: i giovani se ne vanno, i salari crescono meno che in Emilia-Romagna, non c’è più una grande banca del territorio. L’unica grande opera è la Pedemontana, che riassume l’attenzione per il mondo bucolico più che per quello cittadino. Non abbiamo un polo universitario comune capace di competere con gli altri grandi atenei, non si è risolta la questione di Marghera, e Venezia non è mai diventata ciò che dovrebbe essere: qualcosa che amplifica ciò che la regione genera. Rimane invece un corpo estraneo”.
A questa diagnosi si aggiunge un elemento più strutturale, che un sindaco di centrosinistra di una città veneta sintetizza con una certa brutalità: nelle regioni italiane il dibattito pubblico quasi non esiste. “Se comunichi, anche senza fare molto, funzioni. Le regioni non vengono mai misurate davvero su ciò che fanno, e questo vale per tutti, per Zaia in particolare. A parte la sanità – e infatti l’unico momento in cui gli italiani hanno capito cosa fosse una regione è stato durante il Covid – non c’è consapevolezza. Non c’è dibattito, non c’è discussione pubblica sulle politiche regionali. Questo rende molto più semplice non affrontare i nodi strutturali. Se poi l’opposizione non esiste…”. Da qui i molti aggettivi, utilizzati in maniera positiva o negativa a seconda dell’interlocutore, scelti per descriverlo: “tradizionale”, “doroteo”, “furbo”, “moderato”, “pragmatico”, “democristiano”. Volendo sposare il lato meno favorevole, tutti appellativi che richiamano un certo immobilismo. Questo può anche essere vero, ma Marco Almagisti, politologo dell’Università di Padova, che da tempo segue Zaia e le dinamiche della cultura politica veneta, mi fa notare una cosa: “Dobbiamo chiederci cosa ci fosse alla base dell’enorme consenso dei veneti verso Zaia: molti dei suoi sostenitori apprezzano uno stile di governo non interventista. È uno stile di governo locale sedimentato nei decenni dagli amministratori democristiani, coerente con una cultura politica locale che precede l’Unità d’Italia, imperniata sulle capacità di organizzazione autonoma della società, con un ruolo della politica che accompagna e asseconda, ma non stravolge”.
Certo, la grande battaglia mancata – per Zaia come per tutta la Lega veneta – resta l’autonomia. Nel 2017 il Veneto votò un referendum consultivo che fu un vero plebiscito: “Quando abbiamo fatto il referendum per l’autonomia del 2017, noi abbiamo messo il quorum perché sapevamo che l’avremmo superato”, ricorda l’assessore Marcato. E infatti la partecipazione fu altissima per un voto non vincolante: il 57,2 per cento degli aventi diritto, con un risultato schiacciante, il 98,1 per cento di “sì”. Ma il percorso si è poi inceppato a Roma: la legge-quadro approvata dal Parlamento è stata in larga parte smontata dalla Corte costituzionale, e il progetto originario si è progressivamente sfilacciato. Il tema continua ad affiorare nel dibattito veneto, ma senza più la centralità di un tempo: è diventato una promessa sospesa, una rivendicazione che non trova sbocchi concreti. Come nota Almagisti: “L’autonomia non l’ha ottenuta, ma ne è stato l’alfiere. E lo è ancora, perché è una questione irrisolta: se ne parla meno, ma non scompare”.
E la domanda implicita, da anni, è sempre la stessa: cosa succederebbe se un giorno lo togliessero da qui? Oggi, a più di quindici anni dal suo primo insediamento, la questione si è ribaltata: cosa farà Zaia dopo Zaia? Il suo slogan – Dopo Zaia scrivi Zaia – nasce come gioco di parole, ma tradisce anche un vuoto reale. Cosa diventa il doge senza il Veneto? Qual è il destino politico di una figura che coincide così intimamente con il luogo da cui proviene? Per ora, la grande sfida è trainare la lista della Lega, di cui è capolista in tutte le province. L’obiettivo è doppio: evitare il sorpasso di Fratelli d’Italia e diventare il politico con più preferenze personali alle Regionali. Se nessuna delle due cose dovesse accadere – soprattutto la prima – sarebbe una sconfitta pesante. Ma la seconda riguarda direttamente il suo futuro personale.
Perché se per molti veneti Zaia è stato il “veneto perfetto”, c’è un’altra verità, meno celebrativa e più sociologica, che aiuta a spiegare la sua forza: “I veneti, nella storia repubblicana, non hanno mai contato davvero fuori dal Veneto”, aggiunge il sindaco veneto di centrosinistra con cui ho parlato. “La Democrazia Cristiana qui prendeva percentuali bulgare, eppure i grandi leader democristiani non erano veneti, con l’unica eccezione di Mariano Rumor, che comunque esce di scena a metà anni Settanta. Il territorio si è costruito sull’autonomia e sull’individualismo: qualità che funzionano benissimo a Nord-est, ma che ti rendono debole quando ti siedi ai tavoli romani”.
È un limite che riconosce anche Marcato, estendendolo a tutta la classe dirigente regionale: “La sfida dei prossimi anni è contare di più a Roma. Va ripensata l’intermediazione politica: gli ufficiali di collegamento, i parlamentari, i ministri. Serve una presenza più concreta”.
Sarà Zaia a garantirla? Dopo tre mandati, è la domanda che circola ovunque: cosa farà, e soprattutto dove? Quale spazio può avere un leader costruito così profondamente sul radicamento territoriale, sulla familiarità quotidiana, su un’identità che coincide quasi perfettamente con il suo perimetro geografico? Per anni in molti hanno immaginato che potesse rivaleggiare con Matteo Salvini per riportare la Lega alla sua identità tradizionale, il sindacato del Nord, con forti autonomie regionali. E la suggestione resiste ancora oggi, quando si ipotizza che la Lega possa trasformarsi in un partito duale, come la CDU-CSU tedesca: una Lega nazionale e una “Lega veneta” autonoma, con Zaia come leader naturale.
Ma davvero lo vorrebbe? Quasi tutti gli interlocutori rispondono di no: se avesse voluto farlo, lo avrebbe già fatto. E comunque, dicono i più maliziosi, non ha mai avuto la voglia – o il coraggio – di buttarsi in un ruolo più politico. Lontano dal Veneto potrebbe diventare più ricco, magari in una grande partecipata pubblica, perfino più potente. Ma, come mi ha detto una persona che lo conosce bene, “non sarà mai più così felice”.
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