Tre manifestazioni fanno una prova – Campanili n. 38
Non è ancora un terremoto politico, ma la mobilitazione per Gaza segna la prima crepa nel clima di apatia che ha protetto il governo Meloni. È finita la fase di sospensione dell’opinione pubblica?
Confesso che l’enorme mobilitazione per Gaza mi ha sorpreso. Non me l’aspettavo, e soprattutto non mi aspettavo diverse manifestazioni, scioperi generali, giornate consecutive di piazza. Credevo che l’opinione pubblica italiana fosse entrata in uno stato di apatia, incapace di prove di forza: negli ultimi anni le uniche piazze di contestazione sono state quelle folkloristiche dei novax, più carnevali di rabbia che momenti politici, o quelle convocate dai sindacati contro le leggi di bilancio dal 2021 a oggi che raramente hanno trovato una partecipazione ampia.
Il successo politico di Giorgia Meloni, la sua capacità senza precedenti di mantenere il consenso e, dopo tre anni di governo, persino di accrescerlo, sono il prodotto di questo contesto. L’Italia è il paese più vecchio d’Europa: l’età mediana ha superato i quarantotto anni e, negli ultimi dieci, l’invecchiamento è stato rapidissimo. Metà della popolazione ha già superato l’età in cui, altrove, si immaginano cambiamenti, si affrontano rischi, si colgono nuove opportunità, e dunque viviamo in una società più cauta, attenta a difendere ciò che ha e più incline a ripiegare su nostalgie di un passato che non tornerà. In Meloni ha trovato la figura che garantisce questo status quo: una leader che non promette rivoluzioni, ma continuità, e che infatti non perde occasione per rimarcare la stabilità del suo esecutivo rispetto alla media dei governi del passato.
Meloni ha saputo interpretare questa domanda di tranquillità, aggiungendo un posizionamento personale internazionale solido, un controllo dei conti pubblici raro nella politica italiana recente e una capacità non comune di sottrarsi alla sovraesposizione mediatica che aveva logorato gran parte dei suoi predecessori. Dalle elezioni Politiche del 2022 in poi, l’Italia non ha fatto un investimento emotivo, nonostante i tanti richiami al rischio fascista, autoritario, orbaniano. Forse l’elemento più evidente è una lottizzazione degli incarichi nei principali posti di potere – dalla televisione pubblica alle grandi aziende di Stato, dai ministeri alle istituzioni culturali – ma si tratta di una dinamica tipica di ogni esecutivo, senza un vero scarto rispetto al passato.
Oltre all’intero paese, da tre anni la politica italiana sembra ferma, sospesa: prima congelata dal Covid, poi dal bisogno di stabilità. A memoria, non ricordiamo una battaglia in Parlamento o una legge particolarmente incisiva varata. Ma questo tempo immobile inizia a mostrare le prime crepe, e le manifestazioni delle ultime settimane ne sono un segnale. Non incrinano direttamente il consenso del centrodestra: i sondaggi restano solidi, e nelle Marche come in Calabria gli elettori hanno confermato i presidenti uscenti. Non c’è dunque un cambiamento immediato negli equilibri. Eppure quelle piazze raccontano che qualcosa si muove sotto la superficie: forse la fine del clima di apatia che aveva reso possibile l’ascesa e la tenuta di Giorgia Meloni.
Gaza è riuscita a portare in strada centinaia di migliaia di persone, e non per ottenere un risultato concreto, ma per testimoniare un’indignazione collettiva verso una situazione sulla quale non si ha alcun controllo diretto. Certo, non è mancata la critica al governo, accusato di una posizione troppo timida, ma non era questo il motore principale. Solo nei porti si è vista un’eccezione tangibile: i lavoratori hanno impedito il caricamento di container con materiale bellico destinato a Israele, invocando la legge che vieta questo tipo di export verso Stati in guerra. Alcune navi hanno dovuto riorganizzare carichi e rotte: un gesto con conseguenze reali, ma episodiche, non l’avvio di un movimento stabile.
Quello che colpisce è il contrasto con l’assenza di proteste su temi che incidono direttamente sulla vita quotidiana. Eppure i motivi non mancherebbero: i salari italiani non solo stagnano dalla fine degli anni Novanta, ma secondo la BCE sono calati del 5,8 per cento tra il 2021 e il 2023; il paese è bloccato da una gerontocrazia che respinge i giovani a ogni livello, e il saldo migratorio dei 18-34enni nell’ultimo decennio è negativo di 377 mila, con stime che lo moltiplicano per tre considerando chi mantiene la residenza in Italia. Su questi temi non c’è stata alcuna esplosione di rabbia: sono battaglie più complicate, che richiedono organizzazione, sindacati forti, strumenti di pressione costanti. In assenza di tutto questo, i problemi restano muti.
La Palestina, al contrario, offre un terreno immediato: uno schema netto di bene contro male, slogan semplici, messaggi che permettono a chiunque di collocarsi dalla parte “giusta” senza esitazioni. È questa immediatezza a rendere possibile una mobilitazione ampia, sostenuta più dalla cassa di risonanza degli influencer e delle piattaforme digitali che dall’azione dei partiti o dei sindacati.
E i sindacati, che un tempo erano l’architettura stessa del conflitto sociale, oggi appaiono del tutto spiazzati. Dopo il primo sciopero partecipatissimo convocato dai sindacati di base il 22 settembre, la CGIL ha provato a rincorrere dichiarando uno sciopero generale (il 3 ottobre) subito dopo l’abbordaggio della Global Sumud Flotilla, con ventiquattro ore di anticipo e quindi consapevole che sarebbe stato dichiarato illegittimo: un tentativo maldestro di salire su un treno già perso. La UIL non ha seguito la scelta, la CISL da anni non partecipa a scioperi generali convocati da altri, e oggi è di fatto organica al governo: il suo ex segretario Luigi Sbarra, concluso il mandato, è entrato direttamente come sottosegretario nell’esecutivo Meloni.
È proprio questo vuoto di rappresentanza sociale ad aver protetto la Presidente del Consiglio negli ultimi tre anni. Meloni ha potuto governare senza fare troppo, contando sul fatto che al paese interessava relativamente poco. Ma se l’equilibrio si incrina, se la protesta torna a occupare lo spazio pubblico, quella rendita di stabilità diventa più fragile. E il tempismo non le è favorevole: mentre le piazze tornano a riempirsi, il governo presenta una legge di bilancio con pochissimo contenuto.
Il nodo principale è il cosiddetto fiscal drag, cioè il meccanismo per cui, quando gli stipendi nominali crescono (magari solo per l’inflazione), i contribuenti finiscono in scaglioni Irpef più alti o perdono detrazioni, pagando quindi più tasse senza che il loro potere d’acquisto aumenti davvero. In pratica: milioni di persone versano più soldi allo Stato pur non guadagnando di più. Normalmente i governi correggono almeno in parte questo effetto, aggiornando soglie e detrazioni. In Italia non è stato fatto: tra il 2022 e il 2024 pensionati e lavoratori dipendenti hanno versato allo Stato circa 25 miliardi in più solo per questo motivo.
Il risultato è duplice: da una parte un recupero virtuoso delle finanze pubbliche, che ha consentito all’Italia di anticipare al 2026 il rientro del deficit sotto il 3 per cento, guadagnandosi il plauso europeo. Dall’altra, un malessere sociale che si accumula, gorgoglia, e che finora non ha trovato sbocchi organizzati. È questo che rende le piazze degli ultimi giorni un segnale impossibile da sottovalutare: non tanto per la loro capacità di incidere direttamente sulla politica estera (infatti le posizioni del governo non sono cambiate), quanto per la possibilità che rivelino crepe più profonde.
La massima “piazze piene, urne vuote” è in larga parte abusata, e potrebbe valere anche in questo caso: per quanto partecipate, le manifestazioni restano l’espressione di una minoranza, rispetto a milioni di elettori distanti, indifferenti o persino infastiditi dai cortei. Il punto, tuttavia, è un altro: capire se gli ultimi scioperi segnalano un cambiamento di clima. Le risposte molto aggressive di Giorgia Meloni – che ha prima irriso le proteste come un pretesto per approfittare del “weekend lungo”, poi ha paragonato “il fondamentalismo della sinistra” ad Hamas – fanno pensare che il segnale non le sia del tutto sfuggito. Come ha scritto Federico Fubini sul Corriere, Gaza potrebbe essere oggi per l’Italia ciò che i gilet gialli furono per la Francia: una preoccupazione genuina e legittima, certo, ma anche l’esplosione improvvisa di un malessere più profondo, che non si esaurirà con qualche piccolo sconto fiscale in manovra.
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