“Napoli cambia, ma resta un paradiso narrativo” – Campanili n. 4
La fama, il cruccio per il premio Strega, il rapporto con la sua città e la scrittura. Ritratto di Maurizio de Giovanni
Due ampie porte finestre lasciano che una vista sul Vesuvio, sui quartieri occidentali della città e i decumani del centro storico, sia la prima cosa che risalta entrando nel salotto di Maurizio de Giovanni. Un grande ambiente unico si apre davanti a chi entra in casa, un lungo divano a L posizionato davanti alla televisione e un ampio tavolo da pranzo rettangolare. Alle pareti varie opere d’arte, premi letterari, libri, e un’immancabile gigantografia di Diego Armando Maradona. Lo scrittore mi accoglie in una calda sera di aprile, dopo che ha avuto una giornata piena di impegni ma prima di quello più importante: una trasmissione televisiva di una rete locale per parlare di calcio, e ovviamente del Napoli. Insieme a lui c’è sua moglie Paola Egiziano, che siede a poca distanza da noi e ascolta con attenzione. Le parole di de Giovanni racchiudono il momento che sta attraversando la sua città: una rinascita, un “rinascimento” qualcuno lo definisce, riecheggiando quello già vissuto all’inizio degli anni Novanta, ma che stavolta ha qualcosa in più.
La Napoli degli scudetti di Maradona era effettivamente diversa, lontana dall’affollamento di ristoranti, Airbnb, luci e luoghi di pellegrinaggio turistico spuntati come funghi negli ultimi anni. Più povera, più chiusa, più polverosa. “Sono abbastanza anziano da ricordare l’altra volta”, racconta lo scrittore, che nel 1987 aveva 29 anni. “La città era in ginocchio: usciva dal terremoto e soprattutto dal post terremoto, che per Napoli è stato molto più drammatico del terremoto stesso: i soldi della ricostruzione sono arrivati direttamente nelle casse della Camorra che ha riciclato se stessa passando dal contrabbando di sigarette agli stupefacenti”, spiega. Il colera, che si credeva malattia superata all’inizio del secolo, era scoppiato pochi anni prima, nel 1973, portando Napoli sulle prime pagine dei giornali internazionali che, mettendo insieme degrado e criminalità, la descrivevano come una delle città più pericolose del mondo.
Oggi il contesto è opposto, e de Giovanni è uno dei cantori di questo successo, ben consapevole della particolarità del momento: “La Napoli del 2023 non è affatto una città in ginocchio, è una capitale del sud del mondo, una città vincente, vincente come immagine e narrazione, che gode già di un’enorme visibilità. Lo scudetto è stato un’altra luce, come se accendessi un faro da un diverso punto di vista su una città illuminata già di per sé”. Mentre lo ascolto, penso che debba esserci un immaginario elemento metallico nella sua gola per rendere la sua voce così roca, che accentua due aspetti contraddittori: l’energia di quello che dice e la fatica con cui le parole fluiscono.
La criminalità c’è ancora, la Camorra continua a fare affari, ma gli effetti del turismo, delle produzioni cinematografiche e della centralità che ha acquisito Napoli nell’immaginario collettivo, anche internazionale, si cominciano a vedere. Secondo il Rapporto Turismo 2023, curato dal centro studi di Intesa Sanpaolo, dal 2014 al 2022, il peso degli arrivi turistici della città sulla Campania, tradizionalmente contenuto perché Napoli era vista come punto di partenza per raggiungere altre destinazioni regionali, come la Costiera Amalfitana, Capri, Ischia o Pompei, è cresciuto dal 15,5 per cento nel 2014 al 20,8 per cento nel 2022, raggiungendo 1 milione di arrivi e 2,7 milioni di presenze. Il peso della domanda straniera è del 49,4 per cento. E anche l’occupazione è in ripresa, così come la crescita economica: il reddito pro capite dei residenti a Napoli è aumentato del 5,1 per cento tra il 2021 e il 2022.
“Quanto deve essere emozionante per un adolescente dei Colli Aminei vedersi rappresentato in serie TV che vanno in onda su piattaforme globali? Cosa deve pensare un ragazzino di Scampia alla comparsa di gruppetti di turisti paganti tra le macerie delle Vele? Che c’è di male se nella propria città è festa tutti i giorni? Niente”, scrive Gianluca Nativo, uno degli scrittori napoletani emergenti più interessanti, nato nel 1990, mettendo in pagina ciò che molti della sua generazione, me compreso, pensano su quanto sia cambiata la città. Un punto di vista comune soprattutto tra chi, come Nativo, ha costruito la sua vita altrove: “Lo sfessato millennial che invece è cresciuto nella città senza ztl e Liberato un po’ ne soffre. Il cambiamento è sempre difficile da digerire. Proprio ora che ci si è abituati ai ritmi del nord o di qualche altra città inospitale europea, Napoli diventa centro dell’attenzione culturale, mediatica, turistica. Si torna a Napoli un po’ diffidenti, col sorriso beffardo di fronte a una nuova pizzeria gourmet, al centro culturale dei quartieri spagnoli, ma quanto è kitsch il nuovo baretto del San Carlo?”.
Questo atteggiamento de Giovanni lo condanna bonariamente: “Sono un po’ contrario a quella supponenza dell’intellighenzia napoletana che sostiene che i turisti soffocano Napoli, la cambiano. Dicono ‘stiamo diventando come Barcellona’, come se fosse un guaio. Me lo ricordo quando dopo le otto di sera non si poteva andare nel centro storico”. Negli stessi luoghi, oggi, è pieno di turisti da mattina a sera, non esiste più una no-go zone indicata dai media internazionali, né un certo timore dei napoletani stessi a frequentare strade considerate a lungo infrequentabili: “Se c’è un bed & breakfast dove prima si spacciava, mi conviene. Se aprono una pizzeria dove prima ricettavano e vendevano roba rubata, mi conviene. È un turismo di basso livello? Ma che vuol dire? Napoli è così, mica puoi farci Montecarlo: ha il centro storico più grande d’Europa, un’offerta museale, archeologica, artistica, letteraria, gigantesca. Sono fiero di dire che a Napoli puoi venire anche con 50 euro a fare il fine settimana, cioè non è una cosa brutta. Il ragazzo con lo zaino che viene a vedere il Cristo velato a me piace, se magna ’o panino”.
Senza Napoli, de Giovanni come narratore forse non esisterebbe. E senza il successo della città, anche il suo sarebbe meno profondo, meno nazionale e internazionale. L’ambiente conta per tutti, dopotutto. “Alzati, vieni a vedere”, mi dice mentre ci avviciniamo a uno dei due finestroni. “Questa è la ricchezza narrativa di questa città, dove ogni quartiere ha il suo doppio”, sentenzia solenne. Ed è una grande verità che racchiude la diversità di Napoli rispetto a tutte le altre grandi città europee, la sua ricchezza ma anche la sua arretratezza: le classi sociali non escludono, quasi non esiste una scuola media che accolga, nella sua platea, solo figli della borghesia. Tutto si mischia, tutto si confonde: “C’è una sovrapposizione di classi sociali che si parlano, interagiscono, si innamorano, si lasciano, si contaminano. Questo rende la città un paradiso narrativo. Prendo i ‘bastardi’, li metto a Pizzofalcone e posso raccontare quello che voglio, una storia di degrado, aristocratica, umoristica”.