Gioia Tauro, il porto isola – Campanili n. 1
La crisi del Mar Rosso, gli equilibri nel Mediterraneo e le potenzialità di un’infrastruttura troppo periferica
Una piscina vuota in mezzo al nulla. Tra le molte descrizioni che ho letto e ascoltato su Gioia Tauro, questa è forse la più suggestiva e ricorrente. Fino al 1993, il porto della cittadina calabrese non era altro che questo: un’insenatura artificiale composta da un grande ingresso di forma circolare, pensato per permettere alle navi di manovrare, e da una darsena lunga poco più di tre chilometri e mezzo, con enormi banchine di cemento grigiastro. Oggi non è più così. Le gru che caricano e scaricano i container si susseguono per tutto il molo, alle loro spalle i muletti e le auto degli operatori portuali si muovono a un ritmo che sembra quasi predeterminato, come in una scena di un film, nella quale ognuno sa esattamente cosa deve fare, guidato dai fili invisibili di sceneggiatura e regia.
Tutta questa attività si svolge a qualche chilometro dalla città che, però, sembra tutto tranne che una città portuale. Gioia Tauro è un piccolo comune di circa 19 mila abitanti a una cinquantina di chilometri da Reggio Calabria, stretto tra due fiumi, il Petrace e il Budello. Non esiste un vero e proprio centro di gravità, e la sua struttura urbana è in larga parte composta da edifici bassi, molti dei quali incompleti: c’è una sorta di contrasto tra le auto, molte di ultima generazione, e la manutenzione delle strade, quasi assente, così come quella dei palazzi.
Dalla stazione ferroviaria, più o meno al centro del comune, è impossibile raggiungere l’ingresso del porto senza un mezzo proprio, è isolato. Non esistono autobus né navette né taxi che collegano la città con l’ingresso dei moli; solo l’Autorità portuale e la Guardia costiera, posti di fronte al porticciolo turistico e al di fuori del porto commerciale, sono raggiungibili a piedi dalla piazza principale: mi ci sono voluti una quarantina di minuti di cammino, che la temperatura mite di una giornata di fine gennaio mi ha permesso di fare. Lasciando subito il centro abitato, mi sono ritrovato su uno stradone anonimo, senza marciapiede, con gli Appennini a destra ben visibili e il mare a sinistra, meno visibile a causa del muro di cinta del porto e delle inferriate che circondano tutta l’infrastruttura. Prima di visitarlo, credevo di poter raggiungere direttamente l’ingresso; invece ho potuto farlo soltanto grazie al passaggio dei miei accompagnatori.
C’è una sorta di cesura, forse inconscia, tra il porto e il resto del territorio, tranne per una cosa: gli stipendi delle persone che vi lavorano. “E le sembra poco, in un posto come la Calabria!”, mi dice Andrea Agostinelli nel suo ufficio dell’Autorità portuale. Agostinelli è un livornese ben piantato, piuttosto energico, che appare sicuramente più giovane dei suoi 65 anni appena compiuti, nove dei quali trascorsi alla guida dell’Autorità, prima come commissario straordinario e poi come presidente. È anche un ammiraglio, ha lavorato a lungo come ufficiale della Guardia costiera, prima a Portoferraio, poi a Rimini, infine a Roma e a Salerno. Appassionato di mare, così come lo è del suo ruolo in Calabria: “Da qui passa circa il 75 per cento del transhipment di container italiano, parte del mio lavoro è sensibilizzare il sistema Paese sull’importanza di Gioia Tauro per il Sud e per tutta Italia”.
Gioia Tauro è un porto semplice, fa poche cose e le fa per bene. I moli sono divisi tra due terminalisti, aziende che gestiscono le operazioni di carico e scarico, specializzati in settori ben precisi. Il primo e più grande si chiama MCT, ed è di proprietà del gigante MSC, la prima compagnia mondiale armatrice, guidata dall’italiano Gianluigi Aponte, che ha ottenuto la concessione delle banchine principali del porto nel 2019, rilevandola dall’azienda Contship. MSC ha dunque un ruolo doppio e fondamentale per Gioia Tauro, perché non gestisce soltanto le operazioni di carico e scarico nel porto, ma anche la grande maggioranza delle navi che ogni giorno vi transitano. L’altra azienda che opera all’interno dello scalo è Automar, di proprietà del Gruppo Grimaldi. La differenza tra i due terminal è nella tipologia di merci: MSC movimenta i container, mentre Grimaldi le automobili. Anche le due società armatrici hanno interessi diversi, speculari alle loro attività nello scalo: MSC possiede e gestisce in larga parte navi portacontainer, Grimaldi invece è più specializzata nei traghetti, i cosiddetti Ro/Ro che trasportano i tir sui quali poi vengono attaccati i container che vediamo su strade e autostrade.
Grazie alle sue banchine lunghe 4.975 metri e ai suoi fondali profondi 18, una rarità che in Italia può vantare soltanto Trieste, Gioia Tauro può accogliere le più grandi navi portacontainer transoceaniche. L’attività principale, quasi esclusiva per la verità, è il transhipment, il trasbordo di container da una nave all’altra. Le grandi navi commerciali arrivano soprattutto dall’Estremo Oriente, depositano i container destinati al bacino del Mediterraneo, e ripartono dopo poche ore, lasciando che del container si occupi la nave successiva. In gergo, queste vengono dette “navi madri” per distinguerle dai “feeder”, che invece possono entrare negli altri porti di destinazione con fondali meno capienti. Certo, parliamo sempre di ordini di grandezze a noi sconosciuti: all’interno di un porto commerciale moderno le nostre categorie assumono un significato diverso. Le più grandi navi madri al mondo sono lunghe circa 400 metri e larghe 60, e hanno una capienza che può arrivare a 24 mila container. È sull’accoglienza di queste Ultra Large Container Vessel che si basa la forza di Gioia Tauro: negli altri porti, i giganti del mare non riescono ad attraccare. I feeder, invece, sono più “piccoli”, trasportano meno di 5 mila container ma restano sufficientemente imponenti da entrare con difficoltà nella fotocamera del mio iPhone.
Questi contenitori d’acciaio sono impilati ovunque, intorno alle banchine. I volumi sono impressionanti e sconosciuti altrove: il 30 per cento del traffico container nazionale, che è di circa 11 milioni, passa da Gioia Tauro, che nel 2023 ha segnato il record di movimentazione, arrivando a gestirne 3,5 milioni, il 5 per cento in più del 2022 in un contesto di generale flessione dei traffici. Nel porto, sono naturalmente gli oggetti più vistosi insieme alle navi. I più vicini alle linee di carico e scarico sono semplicemente parcheggiati in attesa di trovare una nuova destinazione, altri invece vengono portati più lontano e accatastati uno sopra all’altro, creando dei muri che coprono l’orizzonte. Questi ultimi sono stoccati da MSC, che ne tiene a Gioia Tauro una cospicua riserva, pronta all’uso per affrontare eventuali picchi di domanda.
Per gli operatori del settore il loro numero è un indicatore, tra gli altri, per cogliere l’andamento dell’economia mondiale: quando gli stoccaggi di container aumentano, di norma la crescita rallenta; quando diminuiscono, il mondo cresce.
Dallo scorso novembre gli Houthi, una delle due fazioni in lotta per il controllo dello Yemen, attaccano principalmente con droni le navi commerciali che passano per lo stretto di Bab-el-Mandeb, tra la Penisola Arabica e l’Africa, per poi attraversare il Mar Rosso, il Canale di Suez ed entrare nel Mediterraneo. Così, moltissime compagnie commerciali, compresa MSC, hanno smesso di transitare per questa rotta, preferendo circumnavigare l’Africa: per il Mediterraneo, la perdita di centralità è evidente. Oggi transitano da Suez circa la metà delle portacontainer rispetto a prima della crisi, con una conseguenza importante per gli scali italiani. Una nave madre che deve portare merci in Europa e arriva dall’Oceano Pacifico o Indiano difficilmente decide di entrare nel mare interno: trasborda i container destinati all’Europa del Sud in un porto spagnolo o nordafricano, Algeciras o Tangeri, e poi prosegue per i porti del Nord Europa, Rotterdam, Amburgo e Anversa principalmente, che smisteranno da lì le merci da far arrivare in Europa centrale. Per ora, i porti italiani hanno subìto una lieve riduzione di traffico, ma per alcuni un’eventuale stabilizzazione di questa nuova tratta è un problema non da poco, in particolare per Trieste.
A dicembre, molte persone che lavorano nel mondo dello shipping con le quali ho parlato erano convinte che la crisi sarebbe stata rapidamente risolta, senza veri cambiamenti strutturali nelle rotte. Invece, non solo la crisi si sta prolungando, ma questa settimana la coalizione europea Aspides, che ha l’obiettivo di difendere le navi commerciali europee contro gli attacchi degli Houthi, è intervenuta due volte (martedì il cacciatorpediniere italiano Caio Duilio, mercoledì la fregata greca Hydra) abbattendo dei droni ostili. Sono segnali che indicano che i problemi nel Mar Rosso potrebbero diventare la normalità.
La piana di Gioia Tauro si trova in una posizione cruciale per i traffici commerciali che attraversano il Mediterraneo. È esattamente a metà tra Gibilterra e Suez, e ha un vantaggio competitivo rilevante rispetto agli altri scali italiani. Oggi questo vantaggio geografico è a rischio, ma l’efficienza delle banchine calabresi pare essere, almeno finora, un’efficace difesa: a gennaio e febbraio lo scalo ha registrato volumi maggiori rispetto allo stesso periodo del 2023, numeri certamente influenzati dalla presenza di due soli terminalisti, che essendo anche armatori hanno tutto l’interesse a portare le loro navi nel loro porto malgrado la crisi di Suez. Certo, lo scalo beneficia anche dei grandi investimenti sia pubblici che privati compiuti negli ultimi anni, a cui se ne aggiungeranno altri a breve: la banchina verrà ampliata ancora e quelle esistenti saranno elettrificate, consentendo alle navi in sosta di collegarsi alla rete elettrica e spegnere i motori per il periodo passato all’interno della darsena.
Venerdì prossimo, arriva il primo episodio di lessico di Campanili, in cui approfondiremo alcuni temi di questo reportage con un ospite. Lo condurrò con Laura Cappon. Intanto, ecco il trailer:
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Domenico Laganà è stato gruista fin dall’inizio delle attività del porto negli anni Novanta. È lui che mi accompagna nella prima visita dell’infrastruttura, e mi guida tra le diverse navi in porto, sorridendo di fronte alla mia percezione delle grandezze: quando gli chiedo se quella che ho davanti sia una nave madre, che a me sembra tra le cose più gigantesche che abbia mai visto dal vivo, lui sorride: “Ma no, quello è un feeder, le navi madri sono veramente grandi”. Mi racconta la storia dello scalo e dei suoi lavoratori, come se fosse ancora sorpreso per la piega inaspettata che ha preso la sua vita: “Sono entrato nel 1995 rispondendo a un bando della regione Calabria, ma senza grandi aspettative. Qui siamo abituati a promesse poi non mantenute. E invece, malgrado lo scetticismo, Gioia Tauro è una storia di successo, per quanto esistono molte potenzialità inesplorate”. Oggi è il responsabile provinciale della CGIL. Nell’anima, però, si sente ancora portuale a tutti gli effetti, e rivendica con orgoglio la competenza specifica di chi lavora in uno dei porti più efficienti d’Europa: “Considera che per sbarcare o imbarcare un container servono circa 2 minuti, e una nave imbarca migliaia di container. La velocità è quindi un fattore rilevante, perché il tempo ha un costo per gli armatori: a Gioia Tauro nel 2023 abbiamo segnato un nuovo record giornaliero di movimentazione. Quando ero più giovane facevamo le gare tra noi, a chi era più veloce, e quello spirito è rimasto ancora oggi”. Il record di cui parla Laganà è legato alla Nicola Mastro, portacontainer da 24 mila TEU, che ha compiuto il suo primo sbarco proprio a Gioia Tauro, imbarcando circa 9.500 container e sbarcandone 7.500, con una movimentazione complessiva di 17 mila TEU (acronimo di twenty-foot equivalent unit).
Questa competenza è stata senz’altro uno dei fattori di crescita del porto, che per ora ha assorbito anche l’altra grande incognita: la cosiddetta direttiva ETS (acronimo di Emissions Trading System, sistema per lo scambio delle quote di emissione) che prevede una tassa approvata a livello europeo che devono pagare le aziende dell’Unione a seconda delle emissioni inquinanti. Dal 1° gennaio 2024, anche le compagnie di navigazione – finora esentate – devono pagare questa tassa per le loro navi che superano le 5 mila tonnellate di stazza lorda, praticamente tutte le navi commerciali che effettuano viaggi transoceanici.
A fine 2023, la preoccupazione per l’entrata in vigore di questa tassa era altissima. La politica italiana aveva provato a far comprendere il problema a Bruxelles, in particolare grazie all’attività di Pina Picierno, europarlamentare del Partito democratico, aiutata in questo senso da Nicola Irto, deputato del Partito democratico. Anche Matteo Salvini, che è il ministro competente per i porti, ha più volte “sollevato il tema” a Bruxelles, attaccando la scelta dell’Europa, senza ottenere granché (come del resto i suoi omologhi greci, maltesi, spagnoli, ciprioti, croati e portoghesi): ne ha parlato pubblicamente l’ultima volta il 4 dicembre, ma non ha più affrontato il tema una volta che la direttiva è entrata in vigore. Ho chiesto al ministro Salvini se il suo ministero si stesse ancora occupando del dossier, e i suoi collaboratori mi hanno spiegato che il loro obiettivo è “portare la discussione sulle ricadute sul trasporto marittimo in Europa”, per arrivare a “un documento ‘ufficiale’ fondato su solide motivazioni per richiedere di valutare una revisione della normativa”, ma che la competenza sull’argomento è in capo al Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica. Lo staff di Gilberto Pichetto Fratin non ha risposto a una mia richiesta di commento. Il 14 febbraio scorso il Parlamento italiano ha approvato la legge delega che autorizza il governo a recepire la direttiva.
A Gioia Tauro ci sono state diverse manifestazioni, organizzate dalle associazioni dei portuali, dai sindacati, dalla politica locale. Il porto ha temuto seriamente delle ripercussioni, come dimostra uno dei manifesti ancora affisso sulla porta d’ingresso dell’autorità, che recita: IL PORTO DI GIOIA TAURO NON SI FERMA!, una giornata voluta proprio da Agostinelli. Per adesso, tuttavia, la tassa sembra assorbita: “Noi possiamo intervenire in vari modi, per esempio rimborsando le tasse di ancoraggio, o migliorando i servizi. Il punto è restare competitivi: se l’armatore risparmia sulla tassa ETS ma va in un porto meno attrezzato, meno rapido nelle operazioni, con una posizione geografica meno favorevole, è chiaro che sceglie di venire comunque da noi”, mi spiega il Presidente dell’Autorità.
Uno degli obiettivi per il quale Agostinelli ha combattuto a lungo è la costruzione della ferrovia fino all’interno del porto, per allacciare le banchine alla rete nazionale, attiva solo da poco più di un anno: “Tuttavia, l’infrastruttura, in Calabria, non è all’altezza: molte gallerie non hanno la sagoma adatta per far entrare i nuovi treni da 750 metri, sono ancora quelle ottimizzate per i convogli di 500 metri. È chiaro che non conviene utilizzarli per smistare i container”. Ma serve davvero? Il trasporto via mare è di gran lunga il più conveniente: un treno merci da 750 metri può caricare circa un centinaio di container, una nave feeder di piccola stazza circa 5 mila. I dati sui porti di collegamento con Gioia Tauro sono chiari: la prima destinazione nazionale per i container che vengono scaricati in Calabria è La Spezia, seguita da Napoli, poi Ancona e Venezia. Difficilmente lo scalo calabrese può diventare un porto gateway, cioè dove scaricare e proseguire sulla terraferma, perché è troppo distante dai mercati di destinazione e servirebbero investimenti esorbitanti per rendere più efficiente la rete ferroviaria meridionale.
È indubbio che le potenzialità del retroporto restano inesplorate. Nessun altro scalo italiano ha uno spazio per espandersi quanto Gioia Tauro, che ha pronta un’enorme area industrializzabile “vergine”, che potrebbe essere utilizzata da aziende di logistica, di assemblaggio, dell’alimentare, con il grande vantaggio di essere immediatamente collegate al mondo intero. Eppure, malgrado le possibilità, nessuna grande azienda ha investito sul territorio, completamente abbandonato e utilizzato soltanto da qualche azienda locale, come la Callipo, che gestisce un capannone come magazzino logistico per i suoi prodotti. Così, l’indotto dello scalo è quasi inesistente, al di là delle circa duemila persone che vi lavorano e delle 1500 altre che vi gravitano intorno, e il valore aggiunto per la Calabria è relativo: la ricchezza dei container resta all’interno dell’area doganale, non “entra” mai sul territorio.
“È inutile prenderci in giro qui c’è una chiara linea di demarcazione che divide il territorio e divide anche le competenze mafiose”, mi dice Michele Albanese, giornalista del Quotidiano del Sud, memoria storica del porto, sotto scorta dal 2014 perché minacciato dalla 'Ndrangheta, riassumendo rapidamente i motivi dello scarso sviluppo del retroporto. “Finché non si costruiscono le condizioni e le precondizioni per dare agli imprenditori che vorranno investire gli strumenti sulla sicurezza, qui non verrà nessuno”, conclude Albanese. All’interno del porto è stato possibile garantire un certo grado di sicurezza perché lo Stato, attraverso l’Autorità portuale e le forze dell’ordine, ha reso quasi impermeabili le attività di carico e scarico, che pure scontano, come tutti i porti del mondo, i traffici della criminalità organizzata: nei container viaggia ogni tipo di merce scambiata, e quindi anche sostanze illegali.
Per Gioia Tauro sfuggire alla sua perifericità è forse una sfida troppo grande: “Non esiste, in Calabria, un retroterra industriale a cui attingere per attirare ingenti investimenti privati. Non tutto si può calare dall’alto: Gioia Tauro è un ottimo porto di transhipment, più di questo difficilmente può fare”, mi ha confidato un armatore italiano di lungo corso. Un porto isola, dunque, destinato a rimanere tale.
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