Il giustizialismo della destra “garantista” – Campanili n. 42
In tre anni il governo Meloni ha introdotto oltre trenta nuovi reati, mentre le carceri italiane registrano sovraffollamento record, suicidi in aumento e un numero di detenuti mai così alto
Sottrarre “il corpo del condannato” alla vista della folla è uno dei motivi che ha spinto il sistema penale a inventare la prigione e a sospendere le esecuzioni pubbliche. Il potere nasconde il criminale alla vista perché non ritiene più necessario esporne il supplizio al godimento (o alla rabbia) del popolo. Il carattere pubblico del supplizio e il ludibrio permettevano al re di mostrarsi più forte del criminale, che con il suo gesto non aveva attaccato soltanto la vittima, ma anche il fondamento del potere reale. Oggi siamo al paradosso in cui il populismo penale rischia di evocare una forma aggiornata dello stesso meccanismo: non più la punizione spettacolare, bensì l’idea che l’inasprimento continuo delle pene e l’aumento della popolazione nelle patrie galere bastino di per sé a costituire un deterrente.
Nel 2015 l’Italia contava circa 52.100 detenuti; oggi sono circa 63.800, a fronte di 46.700 posti disponibili: un tasso di sovraffollamento del 135 per cento. L’aumento è costante da anni, ma ha conosciuto un’accelerazione da quando la destra è tornata al governo, con circa 7.700 detenuti in più rispetto al 2022. Utilizziamo spesso in Campanili la dimensione demografica per leggere i fenomeni, ed è utile anche in questo caso: dal 2016 il paese ha perso oltre un milione e mezzo di abitanti, passando da circa 60,7 milioni a poco meno di 59 milioni del 2025, mentre il tasso di detenzione è aumentato del 25 per cento e supera i 108 detenuti ogni 100.000 residenti, contro gli 85 del 2015. E la deriva non riguarda soltanto gli adulti. Dopo l’adozione del “decreto Caivano” nel settembre 2023, il ricorso alla custodia cautelare per i minorenni è stato facilitato e le misure alternative sono state ridotte. Risultato: i minori detenuti sono passati dai 392 dell’ottobre 2022 ai 579 del novembre 2025, un aumento del 50 per cento, mandando in crisi il nostro sistema penitenziario minorile, che invece era uno dei più evoluti in Europa.
“Io lì mi salvo”, a Nisida il carcere è davvero una seconda possibilità – Campanili n. 5
Come funziona l’istituto napoletano, esempio di un sistema penale minorile all’avanguardia. Il suo modello, però, rischia di diventare un’eccezione, come dimostrano le violenze al Beccaria di Milano
Senza sorpresa, le condizioni di detenzione sono divenute insostenibili per molti condannati, al punto che i suicidi sono diventati l’indicatore più eloquente della crisi. Secondo l’Unione Camere Penali, al 24 novembre 2025 se ne contavano già 73 dall’inizio dell’anno; nel 2024 erano stati 91, il numero più alto mai registrato. Il problema dei suicidi in carcere va avanti da anni, si è aggravato durante il Covid e sta diventando una questione strutturale dei nostri penitenziari, in un contesto di scarsa attenzione mediatica e di colpevole sottovalutazione politica. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha persino sostenuto, in un’intervista concessa al Corriere della Sera lo scorso marzo, che “il sovraffollamento è una forma di controllo: alcuni tentativi di suicidio sono stati sventati proprio dai compagni di cella. È la solitudine che porta al suicidio”.
Eppure, nel centrodestra, qualcuno inizia a porsi il problema. Il presidente del Senato Ignazio La Russa – tra i dirigenti di Fratelli d’Italia più vicini a Giorgia Meloni – conduce da mesi una battaglia piuttosto solitaria per far approvare un decreto di liberazione anticipata degli ultimi mesi di pena, così da evitare il collasso del sistema. Ci aveva provato quest’estate, restando inascoltato dalla sua stessa maggioranza; ci ha riprovato nelle ultime settimane, auspicando almeno il trasferimento ai domiciliari entro Natale per chi deve scontare solo la parte finale della condanna.
L’improvvisa sensibilità del presidente del Senato è forse connessa al suo ruolo istituzionale – non risultano prese di posizione così nette prima del 2022 – ma potrebbe avere anche un’altra radice, più personale. Gianni Alemanno è stato un uomo politico piuttosto controverso: ex dirigente giovanile del Movimento Sociale, già ministro e poi sindaco di Roma tra il 2008 e il 2013, la sua parabola si è spesso incrociata con polemiche e con inchieste pesanti. Dal 31 dicembre 2024, però, Alemanno è diventato qualcosa di diverso: un inatteso attivista digitale per i diritti dei detenuti. Da quel giorno è recluso a Rebibbia, dove sta scontando una pena di un anno e dieci mesi dopo la condanna definitiva per corruzione in uno dei filoni dell’inchiesta su “Mafia Capitale”.
Entrato in cella, l’ex sindaco ha iniziato a tenere un diario quotidiano su Facebook, un racconto asciutto ma vivido delle condizioni materiali del carcere e delle vite sospese degli altri reclusi. È un genere di testimonianza che raramente trova spazio nell’informazione italiana, dove le carceri tornano al centro dell’attenzione solo in caso di rivolte, denunce clamorose o – come in questo caso – quando un volto noto vi entra da detenuto.
Il 2 dicembre, nel centro di Roma, a pochi passi da Montecitorio, Alemanno ha “presentato” il suo libro autopubblicato L’emergenza negata, scritto con un altro detenuto, Fabio Falbo. Le virgolette sono necessarie: le parole che aveva composto in cella sono diventate un intervento video, letto da un avatar con labiale e intonazione sorprendentemente realistici. Sul maxischermo della sala è comparsa la sua versione digitale, perfetta nelle movenze e nella voce. Il permesso di lasciare il carcere era stato negato, ma l’avatar si è sostituito al corpo del suo autore, rendendo ancora più evidente – proprio nella sua artificiosità – la “catastrofe silenziosa” delle carceri italiane che Alemanno descrive nel suo diario. La Russa era presente e ha utilizzato l’occasione per rilanciare la sua idea “svuotacarceri”, come gran parte dei media l’ha ribattezzata.
La Russa è stato ancora una volta respinto con perdite dal governo, senza che questo debba stupire: il sovraffollamento è il prodotto diretto della politica penale del centrodestra. Dall’arrivo al potere nel 2022, il governo Meloni ha perseguito una strategia dichiaratamente repressiva, moltiplicando le incriminazioni e irrigidendo le pene. La sicurezza è uno dei suoi principali tratti identitari, e su questo terreno l’esecutivo ha mantenuto con coerenza le sue promesse elettorali, molto più che in campo economico, dove si è mosso con prudenza e ormai rivendica la sua austerità e la riduzione del deficit. L’esecutivo ha scelto di ridurre al minimo i suoi interventi in molti ambiti, ma da questo punto di vista è stato attivissimo: in tre anni sono state introdotte 22 nuove fattispecie penali, di cui 14 nel solo decreto Sicurezza del 2025, e sono state inasprite decine di altre norme attraverso nuovi limiti edittali o aggravanti specifiche. In totale, oltre 30 interventi legislativi che hanno ampliato o irrigidito il catalogo dei reati, spesso con l’aiuto dell’opposizione, come per esempio con il nuovo reato di “omicidio nautico”, approvato nel 2023 alla Camera con 268 sì, un contrario e due astenuti.
In teoria, il ministro della Giustizia Carlo Nordio era entrato in carica professando un approccio opposto, critico verso il “panpenalismo” e favorevole a ridurre l’uso del diritto penale come risposta simbolica a ogni emergenza. Inoltre, la coalizione tra Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia ripete peraltro dal 1994 di essere ispirata a valori “garantisti” e di tutela degli imputati dagli abusi della magistratura inquirente. In pratica, il governo ha spesso legiferato sull’onda emotiva dei fatti di cronaca: così è nato il “decreto Caivano”, dopo le violenze avvenute nel napoletano; così è stata ridisegnata la normativa sugli scafisti dopo il naufragio di Cutro, introducendo un nuovo reato che prevede pene da venti a trent’anni per chi trasporta migranti illegalmente, mettendone in pericolo la vita. Una legislazione costruita sull’urgenza e sulla ricerca di consenso immediato, che ha inevitabilmente contribuito a gonfiare la popolazione detenuta senza incidere sulle cause strutturali della criminalità.
L’enorme sforzo legislativo non ha peraltro prodotto, dal punto di vista della sicurezza, risultati tangibili: nel 2024 i reati denunciati sono aumentati dell’1,7 per cento su base annua, proseguendo una tendenza iniziata già alla fine della pandemia, e hanno ormai superato quelli del 2018, quando la destra era all’opposizione e denunciava l’inefficienza dei governi precedenti. La contraddizione più evidente è proprio questa: mentre l’aumento dei reati dimostra che l’inasprimento normativo non produce maggiore sicurezza, la risposta del governo è annunciare la costruzione di altri diecimila posti in carcere entro il 2027. Una scelta che non affronta le cause del sovraffollamento, ma le accetta come un dato strutturale: l’Italia ha meno abitanti, ma più detenuti.
Il punto è che il giustizialismo di Fratelli d’Italia non somiglia alla cultura della gogna cavalcata dai Cinque Stelle nella stagione d’oro del moralismo giudiziario. È qualcosa di diverso e, in un certo senso, più organico: non l’esposizione del colpevole alla riprovazione popolare, ma l’inflazione di interventi normativi che moltiplicano le fattispecie penali, aumentano le pene esistenti e rendono sempre più frequente il ricorso alla detenzione. È un giustizialismo “per decreto”, che si manifesta non attraverso la retorica del sospetto, ma tramite il continuo ampliamento del diritto penale come strumento di potere.
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