Un grande futuro, dietro le spalle – Campanili n. 6
Mentre la crisi demografica spopola i campanili e alza l’età media, la classe politica si adatta a una società che non vuole rivoluzioni
I manifesti e gli slogan elettorali nei periodi prossimi al voto sono una componente abituale delle nostre città. Vi prestiamo attenzione in modo distratto, consapevoli che la loro funzione è legata all’avvertimento della scadenza elettorale più che al tentativo di convincere qualche indeciso. Un manifesto in particolare, tuttavia, ha attirato il mio interesse: quello di Forza Italia, con Silvio Berlusconi e Antonio Tajani mano nella mano che salutano un pubblico immaginario. L’idea colpisce perché uno dei due leader politici ritratti è morto da un anno, e la scelta di renderlo centrale nella comunicazione è emblematica di una certa tendenza a guardare indietro, al grande futuro dietro le spalle.
Ma lo slogan racconta qualcosa di più profondo: “Una forza rassicurante”, si legge accanto al simbolo del partito. La scelta interpreta perfettamente la fase di stallo che sta attraversando l’Italia, con un’opinione pubblica sempre meno incline a grandi cambiamenti e soprattutto sempre meno interessata a guardare davanti a sé, e allo stesso tempo in cerca di rassicurazioni, appunto. Sospesa e indifferente, nella fortunata definizione trovata dal Censis nel suo rapporto annuale: una nazione di “sonnambuli”, incapaci di riconoscere processi sociali ed economici largamente prevedibili, in particolare quello demografico.
Sottovalutiamo, forse, quanto il declino della popolazione stia cambiando la società italiana, e quanto la cambierà nei prossimi decenni. Il dibattito è, anche giustamente, concentrato sulla crisi della natalità: nel 2023 sono nati soltanto 1,2 figli per donna, il rapporto più basso in tutta l’Unione europea, con conseguenze pesanti sul saldo naturale, cioè la differenza annuale tra morti e nuovi nati. L’anno scorso sono nati 379 mila italiani e ne sono morti 661 mila. L’Italia ha perso quasi un milione e mezzo di abitanti dal 2018. Come se la Liguria fosse scomparsa.
Perdere abitanti è certamente un problema, ma una società che invecchia in modo rapidissimo è un problema ancora più serio: oggi l’età media è di 46,6 anni, in crescita di due anni dal 2014. Nel 2023 – scrive il Rapporto Istat appena pubblicato - i giovani tra i 18 e i 34 anni sono circa 10,3 milioni, con una perdita di oltre 3 milioni in vent’anni. Se allunghiamo ancora lo sguardo, e torniamo indietro di altri dieci anni, rispetto al 1994, la perdita è di circa 5 milioni. La popolazione di 65 anni e più è, invece, cresciuta di oltre 3 milioni, arrivando fino a 14 milioni e 358 mila individui (il 24,3 per cento, in aumento di 5,1 punti percentuali rispetto al 2004): nel 1994, gli anziani erano poco più di 9 milioni.
Il problema demografico colpisce in modo molto diverso i nostri campanili: l’Italia sta diventando un luogo dove il divario centro-periferia, meno importante rispetto ad altre nazioni per motivi di distanze geografiche ridotte, è un fattore strutturante della società. Il solco tra nord e sud è noto, così come la migrazione interna che porta i giovani meridionali a trasferirsi nelle regioni più produttive. La novità è che questo movimento genera un’asimmetria nell’impatto della crisi: sono le regioni meridionali che perderanno più abitanti nei prossimi anni, eppure dopo il Trentino Alto Adige, è in Campania, Puglia e Calabria che si registra il numero più alto di figli per donna. Il saldo migratorio negativo, per queste regioni, resta profondissimo. Secondo le previsioni dell’Istat, al nord lo spopolamento sarà meno pronunciato – pur in presenza di dinamiche demografiche simili – proprio grazie all’apporto delle altre regioni e degli stranieri.
A questo squilibrio più tradizionale se ne aggiunge un altro: l’abbandono del centro del Paese, inteso come la dorsale che taglia in due la Penisola, ciò che l’urbanista Francesco Gastaldi definisce “l’Appennino triste”, e che specialmente tra Toscana, Emilia e Liguria si spopola in modo rapidissimo, lasciando edifici in abbandono, centri disabitati, servizi inesistenti. Sono aree che non sono mai state particolarmente ricche e sviluppate, e che avevano già subìto un grande spopolamento durante il boom economico, ma che oggi attraversano una crisi irreversibile. Incapaci di reinventarsi come invece hanno fatto altri territori, ma con la fortuna di essere vicini alla pianura, come le Langhe piemontesi.
Tutto ciò non ha soltanto impatti concreti sul sistema pensionistico e sanitario o sul mercato del lavoro, non è meramente una questione economica, ma determina un cambiamento di percezione e di comportamento degli attori politici. Una società più vecchia è una società che non vuole rivoluzioni, né cambiamenti repentini. La staticità dell’opinione pubblica italiana dal 22 settembre 2022 è un fatto politico notevole, anomalo, soprattutto alla luce degli ultimi anni, che ci hanno abituato a leadership effimere logorate in pochissimo tempo, a enormi stravolgimenti, a continui cambi di governo e maggioranze, ad ascese e cadute di movimenti politici nell’arco di una sola legislatura, o forse meno. I sondaggi elettorali attuali appaiono invece cristallizzati: qualche partito si muove di uno o due punti percentuali, ma poco di più, come se gli italiani fossero in una fase di attesa. O meglio, un movimento c’è: verso l’astensione, chi cambia idea “esce” dalla contesa politica, che resta molto rissosa, e sempre meno interessante.
Giorgia Meloni non è stata eletta proponendo rivoluzioni, e incarna la fase storica che sta vivendo l’Italia. Nel 2016-17 ho coperto la prima campagna presidenziale di Emmanuel Macron. Una delle caratteristiche di quelle elezioni era l’idea di cambiamento, di futuro: lo spirito di conquista, una visione in cui la Francia dovesse diventare una potenza del ventunesimo secolo, guidando e influenzando l’agenda globale. Pochi anni prima, anche Matteo Renzi aveva avuto un atteggiamento simile: l’idea della rottamazione, in un Paese già all’epoca in declino demografico, era una proposta di forte rottura dello status quo. Due leader convinti di avere una missione più grande di loro, ma soprattutto convinti di voler cambiare profondamente il Paese. I due tentativi hanno poi avuto esiti diversi, tradendo in parte le promesse: quello renziano ha avuto una caduta fragorosa, paragonabile peraltro alla speranza suscitata nei suoi primi tempi.
Oggi tutto questo non c’è, né speranza né ambizione, se escludiamo la proposta di riforma costituzionale per l’introduzione dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio. Forse l’unica idea forte e di cambiamento duraturo emersa in questi venti mesi: tutto il resto è volto a rassicurare l’elettorato con provvedimenti mai troppo ambiziosi, anche a causa della ristrettezza di risorse economiche dovuta alla grande stagione di spesa pubblica legata al contrasto degli effetti della pandemia e dello shock energetico.
Nelle scelte di classe dirigente, peraltro, lo stallo è ancor più evidente: il governo di Giorgia Meloni è quasi integralmente composto da personalità già rilevanti durante i governi Berlusconi, mentre alla guida delle grandi aziende di Stato il centrodestra ha in larga parte confermato i vertici uscenti, scegliendo altrimenti manager di lunga esperienza, estranei all’area di Fratelli d’Italia e non necessariamente vicini alla Presidente del Consiglio. Come scrive sul Grand Continent Lorenzo Castellani: “Nella politica italiana un leader che spera di durare sceglie l’esperienza e la continuità più che la rottura, a maggior ragione se ha per le mani un partito vergine di esperienze di governo e poco addentrato nei meccanismi del potere”.
Non stupisce, dunque, che la continuità sia un’ossessione per Giorgia Meloni: la Presidente del Consiglio ripete piuttosto spesso di voler continuare con gli stessi identici ministri per tutta la legislatura, impaurita dal dare un’immagine di instabilità. “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”, per l’Italia di questo secolo la massima gattopardiana non vale più. O meglio, non ce n’è più bisogno.
Se hai dei suggerimenti su tematiche da affrontare e/o dritte di ogni tipo, scrivimi pure sui miei account social. Se vuoi informazioni sull’abbonamento scrivi a: info@nredizioni.it