Los Pollos Hermanos a Maccarese – Campanili n. 30
Luoghi, sensazioni e illusioni: una conversazione con Chiara Barzini sugli immaginari geografici dei ricordi
Sono nato e cresciuto nel centro di Napoli, in una delle strade più antiche della città, via Monte di Dio, che si arrampica sul Monte Echia, il caratteristico spuntone di tufo giallo che domina il Castel dell’Ovo e il golfo, dove i greci fondarono la città di Partenope. E da allora, pur avendo girato parecchio, non mi sono mai allontanato troppo dal cuore delle città: ho sempre vissuto al centro, magari non quello storico, oggi sempre più turistico, ma quello immediatamente successivo – per intenderci, mai in quartieri troppo distanti dalla stazione centrale. Tra Nomentano, Garbatella, Ostiense e Monteverde a Roma, Porta Romana a Milano, tra il IX e il XVIII arrondissement a Parigi, Rehavia a Gerusalemme. Non ho mai fatto il pendolare per frequentare l’università, per vedere gli amici, per lavorare. Adoro ospitare persone a cena, e il pensiero di dover “costringere” qualcuno ad andare fuori città per venirmi a trovare l’ho sempre trovato straniante.
Per questo fatico a capire chi sceglie di vivere fuori, nelle zone periurbane, ai margini. Ho un collega molto caro – è lui che mi ha portato a l’Opinion, il giornale francese per cui lavoro come corrispondente dall’Italia – che vive a Versailles e passa circa due ore al giorno in metropolitana per andare in redazione a Parigi, poco lontano dalla Tour Eiffel. Ogni volta che vado a cena da lui e sua moglie sono felice di vederli e passare del tempo insieme, ovvio, ma poi arriva l’ora di tornare e mi ritrovo ostaggio dei mezzi pubblici che, a un certo punto, si fermano. Mi rendo conto sia una mia distorsione (un bias, se vogliamo usare un linguaggio scientifico), che condivido con gran parte della classe urbana italiana ed europea, e che cerco di tenere a bada grazie al mio lavoro, che mi porta naturalmente a vedere e approfondire luoghi che altrimenti non toccherei mai. Campanili, in fondo, nasce anche per questo.
Ma mi chiedo: come si fa a vivere così, lontani dalla città ma non davvero fuori, dipendenti e indipendenti allo stesso tempo? A quel punto non è meglio trasferirsi veramente fuori, in un piccolo paesino nelle Dolomiti, in una delle isole Eolie, o in una cittadina dove tutto è raggiungibile a piedi – a Siena o a Treviso, per dire?
Quando ho parlato con Chiara Barzini, ho capito che quella che per me è una distanza, per lei è stata una forma di mediazione. Dopo anni vissuti a Los Angeles, il ritorno in Italia non è stato immediatamente nella sua città di origine, Roma, ma è passato attraverso un livello intermedio. Roma ma non veramente Roma: Maccarese, sul litorale laziale, a circa quaranta minuti di auto dal centro. “Non volevo tornare subito in città, c’erano delle ragioni intime che non sto qui a raccontare, ma era anche una scelta voluta, cercata”, racconta Barzini. “Sapevo che per riconnettermi davvero alla mia città di origine avrei dovuto farlo per gradi, illudendo il cervello che in qualche modo fossi ancora dall’altra parte dell’oceano. E quindi l’ho trovato in questa provincia che per molti aspetti mi ricordava il mio periodo californiano”.
Il profilo pubblico di Chiara Barzini ha un dettaglio strano. Cercando il suo nome su Google, compare solo la pagina Wikipedia in inglese, quella in italiano non esiste al momento, e questo è dovuto alla sua notorietà oltreoceano: ha intrapreso la prima parte della sua carriera da scrittrice e sceneggiatrice negli Stati Uniti tra New York e Los Angeles. E dopo aver pubblicato il suo romanzo d’esordio, scritto in inglese, Things that Happened Before the Earthquake, ha da poche settimane pubblicato L’ultima acqua (Einaudi), un viaggio in una California ormai prosciugata, che parte da un manuale originale usato per la costruzione dell’acquedotto di Los Angeles del 1913, autografato dall’ingegnere William Mulholland.
Maccarese non è un luogo facile da definire: a pochi passi dal mare, amministrativamente è una frazione divisa tra il comune di Fiumicino e quello di Roma; è un territorio sospeso, una periferia rurale con tratti suburbani, un paesaggio nel quale si alternano rovine agricole, villette, centri commerciali, reperti archeologici e qualche resto medievale. I romani lo incrociano spesso, perché quando si va nell’infelice mare vicino alla capitale – qui è il mio bias da napoletano abituato alla Penisola sorrentina che parla – lo si attraversa percorrendo strade dritte, con qualche sparuto casale rosso ai lati, che portano verso la spiaggia.
Barzini ha vissuto in un ex granaio affacciato sulla corte del castello di Torrimpietra, in un contesto che mette insieme “la bellezza antica” e “l’improbabile contesto di bische, videopoker, un po’ di malavita di periferia romana”. C’è qualcosa di profondamente americano, quasi cinematografico, nel modo in cui racconta questo spazio. Lo dice lei stessa, evocando il mare e l’aeroporto: “Andare sulle spiagge di Maccarese, così vicine a Fiumicino, ti consente di vedere gli aerei che si specchiano nel mare. Mi ricordava Los Angeles e la baia di Santa Monica. Il rombo dei jet che attraversano l’oceano ha un riverbero strano: è come se il mare riflettesse il suono e si crea un effetto un po’ ovattato, misto al calore, ai versi dei gabbiani… mi sembrava quasi una piccola scoperta, l’illusione di aver trovato un’isola felice”. Maccarese è diventata per lei una cerniera tra due mondi, una soglia in cui si può ancora sentire l’eco dell’altro lato dell’oceano, come se gli aerei le ricordassero in qualche modo l’America, o forse il modo per tornarvi. Un ponte sensoriale, più che geografico.
Anche l’urbanistica influisce su questo legame: “Era uno dei pochi posti attorno a Roma in cui c’era un drive-through del McDonald’s”, continua Barzini. “A Los Angeles vivevo a Van Nuys, nella San Fernando Valley, un luogo di margine, dove il vero punto di riferimento erano i centri commerciali e i fast food. L’immaginario geografico è scandito da questo genere di attività: le indicazioni si danno così, non con i nomi delle strade. A Maccarese avevo ritrovato quella dimensione. Ero esaltata da quell’odore di pollo fritto, orrendo, che però mi faceva sentire a casa”.
Per lei, abitare questi spazi è anche un modo di scrivere: “A me serve sempre stare in luoghi che non sono familiari. L’idea di poter essere sorpresi da qualcosa, o di non potersi rilassare del tutto, ti mantiene vispo e curioso. Stare nel proprio orticello fa perdere lo sguardo sul fuori. E per uno scrittore la curiosità è fondamentale”.
Negli ultimi anni, spazi come Maccarese non sono più solo rifugi temporanei o mediazioni simboliche: sono diventati una soluzione concreta. Secondo i dati Istat, circa il 40 per cento della popolazione italiana vive in aree periurbane o in comuni della cosiddetta “Cintura”, che hanno conosciuto una forte espansione dagli anni Ottanta in poi. I comuni classificati come “Polo” – ovvero quelli con un ruolo centrale per la rete urbana e le funzioni strategiche – sono soltanto 182 (il 2,3 per cento del totale) e ospitano oltre 20,4 milioni di italiani, circa un terzo del totale. Ma è nella Cintura che vive la maggioranza relativa: 3.828 comuni – quasi la metà del totale nazionale (48,4 per cento) – in cui abitano circa 23,8 milioni di persone. La pandemia ha accelerato questa tendenza: ha sdoganato un’ipermobilità senza precedenti, rendendo di nuovo seducenti queste zone – che poi le abbia rese più “vivibili” è difficile dirlo, dipende troppo dalla regione e dal contesto.
A Roma, dove la crisi abitativa è sempre più acuta – affitti inaccessibili, mancanza di offerta, compressione della domanda nei quartieri centrali – è comunque un fenomeno in aumento, come ho raccontato in un numero di Campanili dell’anno scorso.

Negli Stati Uniti, lo spazio periurbano è quasi la normalità, tanto da confondersi con uno dei concetti mitici della cultura americana: la frontiera. Un immaginario potente, che lo sceneggiatore Taylor Sheridan ha raccontato con forza nella sua tetralogia della frontiera americana – Sicario, Hell or High Water, I segreti di Wind River, Soldado – dove lo spazio aperto è spesso teatro di violenza, conflitto, sopravvivenza, ma anche possibilità. L’Albuquerque in cui si muovono i personaggi di Breaking Bad e Better Call Saul, in fondo, è frontiera o periferia periurbana? L’immaginaria catena di fast food Los Pollos Hermanos, in qualche modo, sembra suggerire Barzini, potrebbe essere a Maccarese. O comunque, non apparirebbe fuori contesto.
In Italia, al contrario, la frontiera non è una soglia da varcare, da esplorare, da vivere, ma un limite. Chiara Barzini lo dice con una formula incisiva: “Da noi la frontiera è il Mediterraneo. È frontiera per chi cerca di arrivare e per chi invece emigra. Non è una frontiera da scoprire”. E forse è per questo che gli spazi marginali italiani – le zone periurbane, le terre di mezzo come Maccarese – non hanno lo stesso tipo di narrazione epica o romantica. Mica abbiamo i pionieri, in Italia. Dopotutto, siamo un paese stretto.
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