Quando la neve non era un’eventualità plausibile – Campanili n. 21
Quarant’anni fa, l’Italia si ritrovò sommersa da una nevicata epocale. Milano fu la città più colpita dalla crisi: il caso del “palazzone di San Siro”
La neve in città ha sempre esercitato un certo fascino, spesso di ispirazione per scrittori, fotografi e artisti, come nel caso della grande nevicata di Parigi del 1867 raccontata da Emile Zola:
Una sorpresa che la città ha preparato per i suoi abitanti, per piacergli ha nascosto le sue sporcizie, gli sorrideva, al risveglio, con tutto lo splendore della sua bellezza di vergine. Sembrava voler dire ‘mi sono fatta bella mentre voi dormivate, ho voluto augurarvi buon anno, vestita di bianco e di speranza’.
A volte, però, se le città sono impreparate, allo stupore subentra la frustrazione e soprattutto il blocco totale di tutte le attività.
È quello che accade in Italia tra il 13 e il 16 gennaio 1985, quando la “nevicata del secolo” paralizzò letteralmente tutte le regioni settentrionali, causando problemi anche al sud e nelle isole, una sorta di coronamento del disagio dopo venti giorni di freddo intensissimo e senza precedenti. La storia e il contesto di questo avvenimento sono un’occasione per un breve spaccato sul paese di quegli anni, immortalato da Arnaldo Greco e Pasquale Palmieri nel loro La nevicata del secolo, pubblicato da Il Mulino: un racconto vivido della Penisola, e in particolare del nord, con le sue idiosincrasie e campanilismi sul miglior modo di affrontare la tempesta, che alla fine travolge un po’ tutti.
L’estratto che segue, concesso dagli autori e dalla casa editrice a Campanili, ci permette di entrare subito nel clima del 1985, quando la meteorologia non era ancora a portata di mano come oggi e quando era più difficile ottenere informazioni in tempo reale sulle condizioni atmosferiche.
L’Italia è attraversata da un insolito vento tiepido nel dicembre del 1984. I bollettini meteo parlano chiaro: una “rimonta di masse d’aria calda” attraversa il continente e arriva fino alla penisola. L’inverno sembra non voler arrivare. Il clima è mite anche sui rilievi montuosi e gli operatori turistici sono preoccupati. Il popolo dei vacanzieri è pronto a invadere le località più richieste durante le feste natalizie, pur sapendo di poter rimanere a bocca asciutta. Alcuni comuni alpini decidono di correre ai ripari e si affidano alla neve artificiale, ma gli sforzi sembrano davvero vani. Le temperature si mantengono al di sopra dello zero anche durante la notte e bastano poche ore di sole per trasformare le piste da sci in sgangherate strisce di erba e fango. Le speranze sono quindi rivolte all’arrivo del freddo: serve che la colonnina del termometro si abbassi di diversi gradi per non rischiare di rimanere a secco.
Le prime avvisaglie di un’inversione di tendenza arrivano nei giorni di Natale. Nelle regioni del Sud sono annunciate correnti gelide provenienti da nord-est, accompagnate da corposi annuvolamenti. Nelle aree interne della Puglia e della Basilicata comincia a nevicare e, più a bassa quota, si registrano violente alluvioni. I cronisti delle testate nazionali danno priorità a ben altri argomenti – attentati terroristici, guerra fredda, crisi del sistema produttivo, disoccupazione di massa, esplosione dei decessi per eroina – e non prestano attenzione ai cambiamenti in corso. Gli unici sguardi vigili sono quelli degli specialisti, come il colonnello Andrea Baroni che, da oltre un decennio, è diventato una celebrità televisiva grazie alla conduzione di Che tempo fa sui canali della Rai. Parlando prima del telegiornale, Baroni ammette che qualcosa di insolito sta accadendo: un vento siberiano taglia in due il paese e provoca sconquassi notevoli, mandando anche gli “elaboratori matematici” dell’aeronautica “in tilt”.
[…] Il gelo colpisce al Sud nei giorni successivi al 6 gennaio del 1985. Il governo cerca di reagire allertando il ministro Zamberletti e la Protezione civile (l’istituzione del ministero della Protezione civile risale al 1981, dopo il terremoto dell’Irpinia), ma le opposizioni non perdono l’occasione per passare all’attacco e denunciano la “situazione da Terzo Mondo” che si è venuta a creare. Le cronache fermano il loro sguardo sulle aree di confine fra Campania, Puglia e Basilicata, le stesse colpite dal violento sisma del 1980. Migliaia di famiglie sono rimaste isolate in alloggi provvisori. Mancano i generi alimentari e le medicine. L’arrivo dei rifornimenti – racconta Repubblica – è reso impossibile da “muraglie di ghiaccio, con uno spessore di alcuni metri”. I vigili del fuoco sostengono di essere alle prese con un freddo “mai conosciuto”. I dirigenti scolastici sono costretti a interrompere le attività didattiche e denunciano l’inadeguatezza di strutture “non attrezzate per temperature così basse”. Il blocco coinvolge anche il tribunale di Santa Maria Capua Vetere (in provincia di Caserta) e provoca il rinvio forzato di un’udienza molto attesa: quella relativa al processo contro il celebre malvivente Raffaele Cutolo e 156 affiliati alla Nuova camorra organizzata.
A Napoli ci sono molti bambini in ospedale con forti difficoltà respiratorie. Pur essendo vaghi sulle diagnosi pronunciate dai medici, i giornali sembrano concordi nel parlare di circa mille casi. I contorni del fenomeno sono sufficienti per far tornare alla ribalta lo spettro del “male oscuro”, che ha mietuto molte vittime in città negli anni precedenti. Sui monti del Matese, ai confini settentrionali della Campania, i problemi hanno un carattere radicalmente diverso. Numerosi comuni sono isolati e gli animali nelle stalle hanno cibo sufficiente solo per un paio di giorni. Cinque pastori sono stati salvati da un provvidenziale intervento dei carabinieri, ma molti altri restano in pericolo. La neve continua a cadere senza sosta, riacutizzando gli antichi mali di un territorio in pieno dissesto idrogeologico. I corrispondenti locali dei quotidiani parlano di una terra che “si sgretola, frana, scivola a valle, trascinando con sé i centri abitati”. Ancora più complessa è la situazione della Calabria, soprattutto sull’altopiano della Sila. I villaggi interessati dalla riforma agraria del secondo dopoguerra sono in ginocchio. Gli abitanti stanno spendendo tutte le loro energie per accaparrarsi pane e viveri, nel timore che la normalità tardi a tornare. Le previsioni meteo non lasciano ben sperare.
[…] Nella notte fra il 13 e il 14 la storia del gennaio 1985 prende una nuova direzione. Le traiettorie del grande freddo si spostano verso il settentrione della penisola italiana. La prima città ad affrontare le conseguenze della neve è Bologna, dove il termometro raggiunge i 15 gradi sotto zero e il sistema energetico rischia la completa paralisi. Le tubature dell’acqua sono ghiacciate, le strade impraticabili, le scuole deserte. Non molto diversa è la situazione nella zona orientale della Pianura Padana, dove si rischia il disastro ecologico. Le temperature polari hanno portato alla morte migliaia di uccelli non abituati a un clima così rigido. Le valli da pesca del Polesine vedono riaffiorare anguille senza vita. Sul canale di Cavallino, fra Venezia e Jesolo, la lastra di ghiaccio si è fatta così spessa “da sopportare un torneo di calcio fra rioni, una festa all’aperto con tanto di cucine e tavoli apparecchiati […], una fiaccolata e una traversata a piedi della laguna ghiacciata” (Repubblica).
È tuttavia Milano a diventare ben presto cuore della crisi. La prima reazione al maltempo sembra essere energica. I giornali sottolineano che la popolazione continua a muoversi e a recarsi sul posto di lavoro, nonostante i disagi. Ma la bufera continua ininterrottamente per 72 ore e mette in ginocchio tutti i servizi urbani. I cronisti operano veloci confronti spulciando nei loro archivi e acquisiscono senza molta fatica una consapevolezza: si tratta della nevicata più lunga e corposa del XX secolo. Un manto bianco avvolge il paesaggio urbano, suscitando stupore in tutti gli abitanti. Molti provano a scendere in strada con macchine fotografiche e telecamere per immortalare l’incanto di un inverno irreale. I bambini fanno pressione sui più grandi per poter uscire dalle case e giocare in uno scenario tanto insolito. Ma la gioia lascia anche spazio, in alcuni frangenti, alla paura: la precipitazione si rivela essere brutale per la sua intensità (il cumulo su tetti e strade oscilla fra i 70 e i 90 centimetri), provocando diversi blocchi.
I mezzi pubblici si fermano e restano in funzione solo le linee della metropolitana. Gli incidenti stradali si moltiplicano e i pendolari non riescono più a raggiungere il centro del capoluogo lombardo. La mappa dell’assenteismo nelle fabbriche diventa sempre più fitta. L’Alfa Romeo e l’Eni sono in grave difficoltà, mentre l’Italtel chiude gli stabilimenti di Castelletto e San Siro. Il distretto di Sesto San Giovanni si trova costretto a rallentare i ritmi di produzione nel giro di poche ore. La decisione di far marciare le attività a passo ridotto arriva anche dal magnate Silvio Berlusconi: gli uffici finanziari autorizzano i dipendenti a rimanere a casa, ma in compenso le reti televisive del gruppo Fininvest (Canale 5, Rete 4 e Italia 1) continuano a trasmettere con regolarità, facendo arrivare i loro contenuti nelle case degli italiani.
Il sindaco Carlo Tognoli – lo stesso che aveva avuto parole al vetriolo contro Roma – è costretto ad arrendersi all’evidenza e, trovandosi di fronte a una potenziale catastrofe, chiede l’intervento dell’esercito. Arrivano i militari del battaglione Spluga, i bersaglieri della brigata Goito, gli uomini del reggimento artiglieria terrestre a cavallo Voloire. Persino la Coldiretti mostra comprensione verso lo stato di necessità e decide di impegnare i suoi trattori per liberare le principali arterie urbane. Lo spessore della neve accumulata al suolo raggiunge i 90 centimetri e – come si legge sulle pagine di Repubblica – costringe la “capitale morale” della penisola ad “abbandonare la sua fierezza di città-azienda autosufficiente”.
Anche la stazione ferroviaria centrale vive la sua disfatta già nella giornata di martedì 14 gennaio: solo 13 treni su 76 arrivano a destinazione, e solo 21 su 73 riescono a partire. La voce dell’altoparlante annuncia ritardi “di una certa entità”, senza dare ulteriori notizie sul blocco dei convogli. Nel primo pomeriggio cominciano le proteste più accese, con frotte di viaggiatori che prendono d’assalto l’ufficio informazioni. Alcuni borseggiatori approfittano del parapiglia per rubare valigie e portafogli. I fiocchi continuano a posarsi sulle rotaie. I primi a consumare la loro vendetta sono proprio i romani presenti allo scalo: “Ci avete sfottuto, eh? Mo beccateve sta’ tormenta”.
Il Corriere affida l’editoriale sul ribaltone del maltempo a Luca Goldoni, che ha espresso pochi giorni prima giudizi poco lusinghieri sulla popolazione capitolina, impreparata al freddo. Senza il timore di cadere in contraddizione o di essere accusato di incoerenza, Goldoni si prende la libertà di scherzare sul disastro lombardo: “Forse adesso sono Leningrado e Stoccolma a sorridere di Milano, Torino o Bologna; c’è sempre un Nord un po’ più a Nord”. Poi aggiusta il tiro e cerca di riconquistare un tono serioso (c’è poco da ridere, in fondo, se le mele “costano come tartufi”). E riprende a celebrare le virtù delle popolazioni settentrionali, volenterose al punto di tenere aperte fabbriche e scuole in giorni tanto difficili, pronte a “rimboccarsi le maniche e affrontare individualmente i guai comuni prima che arrivino le autorità preposte”.
Rivolge quindi lo sguardo ai disastri del recente passato, per costruire un discorso che oggi definiremmo integralmente impregnato di antipolitica. Rievoca la crisi energetica degli anni Settanta e rimpiange le “domeniche a piedi” imposte dall’aumento dei prezzi del carburante. Colloca in quegli scenari un fantomatico senso di solidarietà fra le persone, desiderose di darsi aiuto reciproco. La neve può avere effetti analoghi sulle coscienze individuali, essendo incapace di suscitare vero terrore, e mostrandosi più incline a diffondere “un’allegra incoscienza da vecchia scolaresca eccitata dall’imprevisto”. Chi si impantana con la sua auto in un cumulo bianco – scrive ancora Goldoni – può sempre sperare nell’aiuto di un pensionato o di una signora in pelliccia “con i doposci a zampa di yeti”. La congrega italica non lascia prevalere la sua indole “parolaia e individualista” in ogni occasione, ma sa diventare anche “consapevole e generosa”. L’unica vera eccezione è nei rappresentanti dei partiti, abituati a strumentalizzare alluvioni, terremoti, attentati terroristici, e ora impegnati a sfruttare “l’aria fredda polare”. Stando alle loro retoriche, esistono ruspe governative e ruspe di opposizione. Le fratture dei femori hanno imparato a essere progressiste, mentre le lesioni alle tibie rimangono reazionarie. Le ragioni di queste forzature sono presto spiegate: le elezioni di maggio sono vicine e “anche la neve fa brodo”, spostandosi un giorno a destra e l’altro a sinistra.
[…] C’è tuttavia un incidente che fa più rumore degli altri: il crollo del “palazzone di San Siro”. La struttura è considerata un simbolo dello sport milanese e dell’intera economia cittadina: una versione in salsa italica del celebre Madison Square Garden di New York, “una delle dieci sale senza colonne intermedie più grandi al mondo”, con una copertura “a forma di sella” su pianta ellittica, costata circa nove miliardi di lire (più del triplo della cifra prevista dal progetto iniziale). Viene inaugurata solo nove anni prima, il 31 gennaio del 1976, in diretta televisiva. Dal 4 al 10 febbraio, il “palazzone” ospita la Sei giorni ciclistica e un pubblico molto numeroso saluta con entusiasmo le imprese di Francesco Moser. Seguono i campionati europei indoor di atletica leggera, convegni politici, incontri di pugilato e concerti, come quello di Freddie Mercury e dei suoi Queen. Nel 1978 la nuova costruzione di San Siro comincia ad accogliere le partite dell’Olimpia Milano, ovvero la società di pallacanestro più titolata della penisola. Nonostante l’enorme distanza che separa il campo dagli spettatori, inusuale per la palla a spicchi, si raggiungono presto i 12 mila paganti per una singola partita. Nei primi anni Ottanta l’impianto riesce a offrire un palcoscenico anche alle stelle della lega americana NBA.
Torniamo così alla notte fra il 16 e il 17 gennaio del 1985. Il peso della neve distrugge due tiranti di acciaio, provocando uno squarcio di 10 metri quadri nel soffitto della zona nord dell’impianto. I vigili del fuoco provano a intervenire con l’aiuto degli esperti del Comitato olimpico nazionale, ma si trovano di fronte a una scena disarmante. I danni sembrano fin da subito enormi, difficili da quantificare. L’intera area viene posta sotto sorveglianza e si decide per un’immediata interruzione delle attività, alla luce degli evidenti pericoli per atleti e pubblico. Poche ore prima la squadra di calcio dell’Inter aveva usato la struttura per gli allenamenti, non potendo permettersi di far lavorare i calciatori a temperature polari. L’incidente crea un imbarazzo evidente nelle autorità: la copertura “a sella”, considerata all’avanguardia in Europa, si è dimostrata troppo fragile per resistere alle avversità atmosferiche.
L’inaspettato collasso offre ai critici l’occasione imperdibile per un regolamento di conti. I più severi puntano il dito verso un “monumento inutile”, un baraccone “nato vecchio”, più adatto al folklore che ad accogliere vere competizioni. La Gazzetta dello Sport chiarisce fin dal primo momento la necessità di accertare le responsabilità dell’accaduto, ma evidenzia anche il bisogno di restituire ai cittadini una struttura funzionale nel più breve tempo possibile. L’auspicio di una veloce ricostruzione si rivela tuttavia vano. Il Coni apre un contenzioso con l’impresa costruttrice (la Condotte d’Acqua di Roma) e prova a ridefinire completamente il progetto. L’iniziativa si trasforma in un clamoroso fallimento: i tribunali competenti stabiliscono che i lavori sono stati svolti a regola d’arte, seguendo con attenzione le richieste della committenza. La neve, molto semplicemente, non era stata considerata un’eventualità plausibile. Ha colto tutti alla sprovvista ed è destinata a lasciare dietro di sé un cumulo di macerie, comprese quelle del “palazzone”.
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