Porto, con Gian Enzo Duci – lessico di Campanili #1
Perché i porti e il trasporto marittimo sono vitali per il funzionamento della nostra economia e di quella mondiale
Sin dall’antichità è protagonista di guerre, conquiste e viaggi che hanno permesso la scoperta di nuovi orizzonti del mondo. Per ogni grande civiltà è stato simbolo di potere e sviluppo, e ancora oggi è un nodo vitale dei nostri scambi commerciali e delle nostre comunicazioni. Un ingresso, un passaggio, ma anche un rifugio.
Porto è la parola che abbiamo scelto per il primo episodio del podcast lessico di Campanili.
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Quella che segue è una trascrizione della conversazione, modificata per ragioni di lunghezza e chiarezza.
Laura Cappon
Francesco, per il primo numero di Campanili sei stato a Gioia Tauro, che è uno dei porti più importanti d’Italia. I porti sono infrastrutture chiave, sono punti nevralgici della globalizzazione. Quando sei arrivato a Gioia Tauro eravamo nel pieno della crisi provocata dagli Houthi, che sono delle milizie yemenite che stanno attaccando le navi sul Mar Rosso. Suez è la porta di accesso del Mediterraneo, questa è una crisi molto seria che se diventa strutturale porterà sicuramente conseguenze sull’inflazione in Europa, sulla catena della logistica. Insomma, come mai hai deciso di raccontare Gioia Tauro?
Francesco Maselli
Ho deciso di raccontare Gioia Tauro perché, come dicevi tu, è uno dei porti più importanti d’Italia e questo è poco percepito, secondo me, dall’opinione pubblica: il 30 per cento della movimentazione di container fatta in Italia avviene a Gioia Tauro, che è un punto assolutamente nevralgico ma rischia di perdere centralità. Ci sono due motivi. Il primo l’hai citato tu, ed è un calo del traffico marittimo a causa del blocco di Suez; e poi c’è un’altra problematica, quella della tassazione: l’Unione Europea ha imposto delle tasse sulle emissioni alle compagnie armatrici e questo potrebbe far perdere competitività al porto di Gioia Tauro rispetto agli altri scali del Mediterraneo che non sono nell’Unione Europea e non impongono queste tasse. È stato interessante andare a vedere come il porto sta affrontando questa doppia sfida.
Laura Cappon
Cosa ti ha colpito di più?
Francesco Maselli
Quando entri in un porto del genere vedi cos’è la globalizzazione, vedi la quantità di merci e di container che ci passa, e anche la grandezza, la scala di ciò che si muove: noi non siamo proprio abituati alle proporzioni di queste enormi gru più alte di palazzi, dei container, delle navi. È tutto gigantesco. E capisci anche quanto la globalizzazione sia poi in fondo un meccanismo fragile: se si ferma, si ferma tutto, perché quasi tutto ciò che scambiamo transita via mare. Andare a vedere un porto come quello di Gioia Tauro permette di capire il mondo in cui siamo.
Laura Cappon
Le crisi legate alla pandemia di Covid e le ultime guerre ci hanno fatto capire che i porti e il trasporto marittimo sono vitali per il funzionamento della nostra economia e di quella mondiale. Per capirne di più e per raccontare al meglio la parola “porto”, quella che abbiamo scelto in questo episodio, abbiamo con noi un ospite, Gian Enzo Duci, vicepresidente di Conftrasporto e Managing Director di ESA (Enterprise Shipping Agency).
Francesco Maselli
Puoi far capire a chi ascolta perché il trasporto via mare svolge un ruolo fondamentale nel processo della globalizzazione e non è sostituibile? Non puoi spostare questa quantità di merci in un altro modo che non sia via mare.
Gian Enzo Duci
Il trasporto via mare è una cosa strana, è veramente il tessuto connettivo dell’economia mondiale. E però, proprio perché avviene via mare, la gente ne ha una scarsa consapevolezza. Qualche anno fa, una giornalista inglese (Rose George, ndr) ha pubblicato un reportage, seguendo un container dalla Cina verso l’Inghilterra: questo libro che si chiama Ninety Percent of Everything spiega che le cose che abbiamo attorno o i vestiti che indossiamo hanno fatto almeno un passaggio via mare nel 90 per cento dei casi. Non significa che il 90 per cento delle merce a livello mondiale si muove via mare, tuttavia, o come materia prima o come semilavorato, o ancora come prodotto finito, quasi tutto ha avuto bisogno del mare per arrivare a essere dentro i prodotti che abbiamo attorno. E questo non è percepito dal mondo come un aspetto così rilevante. Oppure inizia a esserlo da quando esiste questo meccanismo perfetto che è la logistica via mare, sviluppatasi in tempi anche abbastanza recenti. Perché è dall’introduzione del container che siamo stati capaci di rendere il costo del trasporto irrilevante rispetto al luogo in cui una produzione può essere fatta. Il ruolo della globalizzazione è paragonabile solo a quello delle politiche di libero scambio.
Laura Cappon
Ecco, lei parla di una catena logistica “perfetta” che in realtà in questo momento perfetta non è: la crisi di Suez sta avendo un impatto serio sul ruolo del Mediterraneo come mare che collega l’Asia all’Europa. Ci racconta cosa sta succedendo?
Gian Enzo Duci
Questa catena perfetta è perfetta fintanto che tutto funziona benissimo, ma come succede nelle catene, basta un anello più debole degli altri per indebolire il meccanismo e far cambiare l’approccio nei confronti dello strumento. Quello che sta succedendo oggi nel Mar Rosso l’abbiamo già visto nei quindici giorni in cui l’Ever Given si era messa di traverso nel canale di Suez, o durante il periodo del Covid con una sostanzialmente interruzione delle catene. Ma oggi è quasi peggio, perché dal canale di Suez passa il 12 per cento dell’economia mondiale.
Il Mediterraneo è l’1,5 per cento delle acque del mondo, quindi è quasi un lago se lo andiamo a chiudere tra Gibilterra e Suez e, per certi versi, la riduzione dei transiti da Suez lo ritrasforma in un lago come è stato fino al 1869 quando il canale è stato aperto. Ricordiamoci che da Suez, prima degli attentati degli yemeniti, transitavano circa 80 o 90 navi al giorno; oggi siamo a meno del 50 per cento di quel numero, tra le 30 e le 40 navi al giorno. La riduzione indica che, sulla rotta principale del commercio mondiale, cioè dall’Asia al Mediterraneo, c’è stato un cambiamento profondo: non potendo passare da Suez, le navi hanno dovuto scegliere di passare dal Capo di Buona Speranza, circumnavigando l’Africa. Parliamo di dieci giorni di navigazione in più e maggiori costi per chi può affrontarli, ma non tutti possono permetterselo: alcune categorie merceologiche non hanno semplicemente più la possibilità di arrivare in determinati mercati.
Faccio un esempio: avevamo cominciato a esportare rucola dall’Italia alla Corea del Sud, perché passando da Suez con dei contenitori refrigerati si faceva in tempo a portarla sui mercati locali. Con la navigazione attraverso il Capo di Buona Speranza, i dieci giorni in più diventano troppi: anche sostenendo il costo maggiore, il prodotto non fa in tempo a raggiungere la destinazione.
Francesco Maselli
Mi collego alla domanda di Laura per introdurre il tema della tempistica. A novembre si diceva che questa sarebbe stata una crisi passeggera. Ho parlato con gli operatori e mi dicevano “questa cosa si mette a posto, è ancora presto per trarre delle conclusioni”. Adesso però siamo a fine marzo, e non sembra che le cose migliorino, perché la missione europea Aspides che protegge le navi nel Mar Rosso sta intervenendo con sempre maggiore frequenza. La crisi sta diventando la normalità?
Gian Enzo Duci
Se la nuova rotta diventa la normalità, il Mediterraneo torna al 1868, cioè diventa un mare marginale, dove ci si va solo per consegnare e ricevere le merci e non ci si transita come avviene oggi. Questo cambia completamente la geografia.
Per certi versi l’economia sta già iniziando a capire il nuovo meccanismo e si sta adeguando: il costo del trasporto progressivamente si sta riducendo da quella fiammata vista a dicembre e gennaio. Pian piano questa curva sta di nuovo scendendo, ma ciò comporta sicuramente una marginalizzazione dei nostri porti e del nostro sistema logistico, che già presenta delle inefficienze maggiori rispetto a quello dei porti nel Nord Europa, ma che aveva un chiaro vantaggio geografico dall’essere prossimo alla rotta più breve. Se entrare in Mediterraneo diventa una rotta più lunga rispetto al Nord Europa, è chiaro che rischiamo di perdere controllo sulla logistica in e out del nostro paese. Gli operatori, probabilmente, vedranno il trasporto via terra dai porti del Nord Europa verso il Nord Italia come un’alternativa estremamente conveniente rispetto al passaggio nei porti nazionali.
Si tratta di un problema strategico per il paese, perché il controllo della catena degli approvvigionamenti e dell’export può essere importante, in un momento in cui le tensioni geopolitiche crescono e il commercio non sembra essere più così libero come in passato.
Francesco Maselli
Le aziende e le compagnie degli armatori come stanno affrontando questo cambiamento? Molti hanno investito nei porti mediterranei e, se questi diventano meno centrali, per loro la crisi diventa doppia, sia a mare che a terra: ai problemi sulle rotte si aggiunge la crisi delle infrastrutture dove hanno investito.
Gian Enzo Duci
Le grandi società armatrici che nel 2021-22, soprattutto nel 2021, hanno fatto utili paragonabili a quelli dei colossi di internet, hanno investito i proventi a terra in infrastrutture ferroviarie, terrestri, in aziende del settore, o hanno acquisito porti. Questo le lega al territorio. Chi ha comprato e acquisito o preso in concessione aree a terra ha maggiore difficoltà a spostare le navi in altre aree dell’Europa. Invece, in assenza di legami a terra, le operazioni possono essere decise e messe in pratica molto rapidamente.
Il caso di Gioia Tauro è emblematico da questo punto di vista: rischierebbe di perdere traffico in maniera significativa dal mancato transito dal canale di Suez, però lì opera una compagnia (MSC, ndr) che in Italia è il primo operatore e ha degli investimenti a terra, e ha deciso di continuare a far arrivare le navi in quel porto. In modo simile si stanno comportando i cinesi di COSCO (China Ocean Shipping Company, ndr) che, anni fa, scandalizzando molti a Bruxelles, si sono sostanzialmente impossessati del porto del Pireo: da porto in estrema decadenza lo hanno fatto diventare uno dei principali del Mediterraneo. Al contrario, nelle ultime settimane, gli operatori hanno deciso di non transitare più nei terminal portuali dove è il mercato a governare, diversificando le rotte.
Abbiamo, quindi, una ridefinizione della geografia dei traffici che però vede in quegli investimenti fatti a terra da alcuni armatori una modalità per difendere i traffici dei nostri porti.
Laura Cappon
Tra la nuova geografia del trasporto, scrive il Financial Times, c’è anche il corridoio ferroviario russo che si è rafforzato con la crisi di Suez. Se dovessimo tirare le somme e fare un bilancio, chi guadagna e chi perde da questa crisi?
Gian Enzo Duci
Il trasporto terrestre non è un’alternativa al trasporto marittimo. È bello parlarne da un punto di vista giornalistico o a livello accademico, ma l’intera capacità annuale di trasporto ferroviario dalla Cina all’Europa vale due settimane di trasporto via mare: anche se dovesse raddoppiare, parleremmo sempre e comunque di percentuali a singola cifra rispetto al trasporto via mare.
Chi ci sta guadagnando? In questo momento, su un’operazione come questa, non ci sta guadagnando quasi nessuno. Qualcuno dice che sono sempre le compagnie marittime che, sull’onda della paura di non riuscire più ad arrivare su determinati mercati, hanno potuto aumentare i noli e ricominciare a guadagnare, non come in epoca Covid, ma molto di più rispetto alla fine dell’anno scorso.
Tanto per darvi un metro di paragone: un container da 40 piedi, quindi di quelli grandi che vediamo transitare sulle nostre autostrade, dalla Cina al Mediterraneo pagava 1.500 dollari a novembre, mentre oggi ne paga 4.000. Poi ci sono gli estremi: nei periodi più bassi di mercato è arrivato a pagarne 700-500, durante il Covid abbiamo visto picchi fino a 15.000 nel momento di massimo timore. Quindi sì, gli armatori chiaramente ci guadagnano, ma i principali operatori mondiali ritengono che entro la fine di quest’anno, che si risolva o meno la crisi del Mar Rosso, il livello dei noli dovrebbe scendere e stabilizzarsi, perché la logistica con il tempo si riorganizza. La merce è un po’ come l’acqua, si muove dove trova spazio.
È anche vero che questa è la terza o quarta crisi consecutiva nel giro di pochi anni, e quindi quelle industrie che avevano progettato delle catene logistiche lunghe a livello mondiale, cioè avevano stabilito di produrre lontanissimo da dove poi distribuivano o assemblavano i prodotti, stanno in qualche modo prendendo dei provvedimenti. Da lì le varie forme di reshoring, nearshoring, friendshoring.
Francesco Maselli
Abbiamo parlato di Suez, ma il canale non è l’unico collo di bottiglia che sconta crisi dalle quali può difficilmente proteggersi perché esogene. Quali sono gli altri punti critici del trasporto marittimo? Avere catene così lunghe è un lusso che ci possiamo ancora permettere?
Gian Enzo Duci
Probabilmente è un lusso che non ci possiamo più permettere. Quelli che in geopolitica si chiamano choke points, cioè i colli di bottiglia dei traffici mondiali, sono sostanzialmente quattro: il canale di Panama, quello di Suez, lo stretto di Malacca e quello di Hormuz. Questi quattro luoghi fisici, se bloccati, possono davvero paralizzare il meccanismo di distribuzione di materie prime, semilavorati e prodotti finiti. Suez non è l’unica area di crisi in questo momento. Su Panama abbiamo una crisi di tipo ambientale, perché la siccità in quell’area ha ridotto il quantitativo d’acqua a disposizione e oggi il numero di navi che vi possono transitare è limitato.
Panama è un canale diverso da Suez, che è un canale lineare in cui si entra da una parte e si esce dall’altra. Panama funziona con una serie di dighe e di chiuse che consentono di alzare o abbassare le navi in funzione del passaggio al luogo successivo. L’assenza di acqua nell’istmo di Panama, o meglio il minor quantitativo d’acqua a disposizione, sta riducendo il numero di navi che possono transitare: il lavoro di allineamento dei diversi tratti del canale è molto più difficile. E questo, per certi versi, è un problema anche quasi maggiore rispetto a quanto sta avvenendo a Suez, perché a Suez abbiamo la speranza di risolverlo in tempi diciamo medio-brevi, ma dall’altra parte invece dipendiamo da aspetti che non possiamo controllare.
Laura Cappon
Se spostassimo la nostra conversazione sulla realtà italiana, quanto sono importanti i porti per l’Italia, quanto sono importanti i porti italiani anche per l’economia europea? Vorremmo capire anche se l’Unione Europea potrebbe persino fare a meno di noi.
Gian Enzo Duci
Be’, l’Unione Europea ha sempre guardato i porti italiani con un po’ di sufficienza. Bruxelles ha in testa i porti del Nord Europa, che sono i più importanti del nostro del nostro continente mentre i porti del Mediterraneo sono percepiti come figli di un dio minore. Per l’Italia sono essenziali, perché dai porti italiani passa il 90 per cento del nostro traffico commerciale con i paesi extraeuropei. Noi oggi abbiamo nei paesi europei i nostri primi partner commerciali: Svizzera, Austria, Germania, Francia sono i paesi più importanti insieme agli Stati Uniti. Ma abbiamo anche una rilevante quota di import dai paesi più distanti e bisogna tener presente che la sponda sud del Mediterraneo sta crescendo in maniera importante.
Quando guardiamo al mare, all’altra sponda del Mediterraneo, vediamo più problemi legati al transito dell’immigrazione, quando in realtà lì davanti abbiamo il futuro della nostra economia e del nostro possibile sviluppo. L’Africa sarà probabilmente il continente che si svilupperà di più nei prossimi cento anni e il nostro posizionamento geografico ci consente di essere il paese che più facilmente può avere vantaggi da questa crescita. Ecco, noi ce lo stiamo dimenticando, ci stiamo tappando gli occhi e le orecchie, tant’è che manca nei nostri porti una politica per quella tipologia di navi, i traghetti, che sono l’ideale per fare traffico con questi paesi.
Francesco Maselli
Qui arriva l’altra domanda che volevamo farti: quanto si stanno attrezzando i porti italiani rispetto a tutti questi cambiamenti? Trieste, per esempio, ha concluso un accordo con il porto egiziano di Damietta per rendere più brevi le catene del valore. È un movimento sistemico oppure, come al solito, ognuno va un po’ per conto proprio e non c’è una strategia?
Gian Enzo Duci
No, da questo punto di vista siamo ancora a livello di repubbliche marinare. Al momento manca un coordinamento nazionale dei porti e i presidenti delle autorità portuali, che sono una sorta di sindaco dei porti, si stanno muovendo in ordine sparso. Trieste è quello che rischia di essere maggiormente penalizzato dalla crisi di Suez, ed è in qualche modo inevitabile che sia il primo a muoversi per cercare di crearsi dei piani B.
Fa strano però che, invece, porti come Genova, che potrebbero essere estremamente interessanti su questi nuovi traffici, non abbiano ancora una vera e propria strategia. Anche se la speranza, e lo dico da genovese, è che col nuovo piano regolatore portuale si possano affrontare queste tematiche per creare e intercettare le opportunità di traffico che la geografia e la demografia ci mettono di fronte per i prossimi decenni.
Laura Cappon
Per questa conversazione oggi siamo partiti dalla parola “porto”. Ha appena detto che è di Genova, quindi le chiedo che significato ha per lei, a livello personale, il porto?
Gian Enzo Duci
Cito sempre una frase che qualcuno attribuisce a Platone, qualcuno attribuisce ad altri filosofi greci dell’epoca: “esistono i vivi e i morti, e i naviganti”. Per noi che ci occupiamo di navi, di porto, ci sentiamo a volte un po’ diversi da tutti gli altri. Le città di mare si legano molto al vostro podcast, perché veramente i campanili sul mare sono sempre stati un elemento chiave di identificazione, oltre che di differenziazione rispetto alle altre città. L’Italia non è un paese marittimo, pur essendo un paese sul mare, perché le sue capitali, quella politica e quella economica, non sono città di mare, sono città che non hanno mai capito il mare.
Per certi versi, ciò che sta succedendo in questo momento ci sta mettendo più al centro, perché anche chi sul mare non vive e del mare non ha grande conoscenza sta comprendendo come invece il nostro destino dipende in maniera rilevante e significativa da quello che sul mare e nei porti avviene e avverrà nei prossimi anni. Il Mediterraneo è il nostro destino, c’è poco da fare, e ce lo siamo dimenticato forse per troppo tempo.
Francesco Maselli
Grazie mille Gian Enzo Duci per averci aiutato ad approfondire meglio un tema, come dicevi, fondamentale per l’Italia. Chissà che questa grande crisi non ci costringa in qualche modo a diventare un paese marittimo. Forse stavamo aspettando proprio questo per poterlo diventare.
Laura Cappon
Francesco, cosa farai come prossima storia? Dove andrai?
Francesco Maselli
Darò solo qualche indizio, parleremo di uno dei prodotti simbolo del nostro paese, e per farlo sono andato in una regione del nord ovest, per capire come si stanno adattando i processi produttivi di questa filiera rispetto al cambiamento climatico, e soprattutto quindi per capire come sarà questo prodotto tra vent’anni.
Laura Cappon
Grazie Francesco.
Francesco Maselli
Grazie Laura, alla prossima.
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