L’Italia non è in crisi. È in declino – Campanili n. 15
“È come un paziente malato, che cambia posizione nel letto per trovare un po’ di conforto, ma non riesce mai a stare meglio e ad alzarsi”
C’è una scena de Le invasioni barbariche (2003) del regista canadese Denys Arcand che ciclicamente mi torna in mente: i protagonisti, riuniti a tavola, ragionano sull’apparente decadenza del periodo storico nel quale vivono.
“Contrariamente a quanto si crede l’intelligenza non è una caratteristica individuale, è un fenomeno collettivo, nazionale e intermittente. Atene 416, la prima della ‘Elettra’ di Euripide. Sulle gradinate, due suoi rivali, Sofocle e Aristofane, e due suoi amici Socrate e Platone. L’intelligenza c’era”.
“Io ho di meglio. Firenze 1504, Palazzo Vecchio, due pareti opposte, due pittori. Alla mia destra Leonardo da Vinci, a sinistra Michelangelo. C’è un apprendista, Raffaello, e c’è un manager, Nicolò Machiavelli. Evviva l’Italia”.
“Philadelphia, Pennsylvania, 1776-1787 dichiarazione di indipendenza e costituzione degli Stati Uniti: Adams, Franklin, Jefferson, Washington, Hamilton e Madison, nessun altro paese ha avuto una simile fortuna”.
A volte si vive in epoche in cui la qualità degli individui riesce a influenzare profondamente, e in meglio, l’ambiente circostante, anche perché è lo stesso ambiente circostante a essere favorevole: l’intelligenza collettiva, se c’è, si trova nelle condizioni ideali per far progredire la società. Altre volte, semplicemente queste due precondizioni non esistono: non ci sono le individualità, non c’è l’intelligenza collettiva, non c’è nemmeno un ambiente circostante favorevole. E dunque si naviga a vista, con idee di breve termine e di corto respiro. I segnali che indicano che l’Italia stia vivendo un periodo come quest’ultimo descritto sono molti. Non per nulla Filippo Ceccarelli, tra i più arguti osservatori degli ultimi cinquant’anni di vita pubblica italiana, ha scritto un libro indicativo sull’argomento, Invano. Il potere in Italia da De Gasperi a questi qua, un titolo che dice già tutto. Anche se, forse, abbiamo la tendenza a incolpare troppo la politica di ciò che non funziona, con la conseguente esagerazione dei suoi margini di manovra e l’inevitabile frustrazione per la sua sempre maggiore inadeguatezza. È il paese, nel suo complesso, che vive una rarefazione dell’intelligenza collettiva, e non sembrano esserci soluzioni.
In una conversazione di un paio d’anni fa, Giuliano da Empoli, che oggi è uno scrittore di successo celebrato soprattutto in Francia, ma ha vissuto in prima persona i cambiamenti del paese seguendo da consigliere la traiettoria di Matteo Renzi negli anni di ascesa e caduta, mi ha dato una chiave pessimista ma calzante per descrivere la situazione: “Ho la sensazione di osservare un paese in declino, un declino costante che attraversa fasi di accelerazione e di rallentamento. Di tanto in tanto qualcuno cerca di invertire la rotta, senza riuscirci: l’Italia è come un paziente malato, che cambia posizione nel letto per trovare un po’ di conforto, ma non riesce mai a stare meglio e ad alzarsi”.
Declino è la parola giusta. Perché l’Italia non è in crisi, condizione che presuppone una certa imprevedibilità, come un improvviso cambio di paradigma geopolitico o un crollo finanziario, e una durata relativamente breve nel tempo. Anzi, il nostro paese si destreggia piuttosto bene quando deve affrontare un evento sfavorevole e inatteso: il rimbalzo dell’economia dopo la pandemia ne è un esempio, così come la capacità del sistema energetico nazionale di riuscire a fare a meno del gas russo in poco più di un anno. Per fare un altro esempio più recente e che ha avuto meno spazio nel dibattito pubblico, anche il nostro sistema commerciale ha dato prova di grande flessibilità, riuscendo ad adattarsi al grande rallentamento della catena logistica causato dalla crisi nel Mar Rosso: infatti, a un anno dai primi attacchi degli Houthi contro le navi commerciali che attraversano il Mar Rosso, per poi entrare nel Mediterraneo attraverso il Canale di Suez e arrivare nei porti italiani, il commercio internazionale sembra essersi stabilizzato sulle nuove rotte che prevedono di circumnavigare l’Africa. La rotta intorno al Capo di Buona Speranza è aumentata dell’89 per cento, mentre il passaggio per Suez è diventato un’eccezione: secondo l’UNCTAD, la conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo, a metà ottobre 2024 la media di 33 transiti al giorno era inferiore del 55 per cento rispetto a un anno fa. In teoria, questo avrebbe dovuto penalizzare fortemente i porti italiani, marginalizzati dalla nuova rotta, soprattutto perché la crisi non è durata qualche mese, come si pensava all’inizio, ma è diventata la nuova normalità. E invece, grazie alla flessibilità, e al peso di MSC, che oltre a essere la prima compagnia di shipping al mondo ha enormi interessi nei porti della Penisola, in particolare a Gioia Tauro (ho raccontato questo “porto isola” nel primo numero di Campanili) e Genova, il nostro sistema commerciale ha tenuto. Riuscire ad assorbire le conseguenze di eventi avversi e incontrollabili è un pregio, ma non inficia il ragionamento di da Empoli.
“Il declino è relativo e non assoluto: nel complesso, l’Italia non è regredita rispetto a come viveva prima della crisi del 1992-94” – spiega l’economista Andrea Capussela in un’intervista dell’ottobre 2022 alla rivista Pandora – “ma da allora ha perso terreno rispetto ai propri pari, e le sue prestazioni sono state peggiori, tenendo conto delle diverse condizioni di partenza, che nei quattro o cinque decenni precedenti”. Il punto che solleva Capussela riguarda la crescita economica – l’Italia del 2024 ha lo stesso PIL che aveva nel 2008, e lo ha raggiunto faticosamente solo quest’anno – e individua due principali cause di questo ritardo. In primo luogo, la scarsa produttività e la scarsa innovazione tecnologica delle imprese, per giunta troppo piccole per competere a livello internazionale, rendono il nostro sistema economico refrattario alla “crescita fondata sull’innovazione, che è un processo conflittuale, di ‘distruzione creatrice’, nel quale il nuovo incessantemente scalza il vecchio: se le regole non lo favoriscono gli innovatori avranno difficoltà a sfidare le élite e la crescita languirà. […] Troppe imprese continuano a competere più sui costi che sull’innovazione, e il paese investe troppo poco nell’istruzione e nella ricerca”. In secondo luogo, sostiene l’economista, il paese sconta l’inadeguatezza della politica e delle politiche pubbliche, che non hanno creato un ambiente favorevole alla competitività e al talento individuale, che quando può cerca opportunità lontano dall’Italia.
L’emorragia di giovani laureati che decidono di emigrare senza che il paese riesca ad attrarre altrettanta immigrazione di qualità è sempre più grave. Nel 2023, circa 50 mila under 34 hanno lasciato l’Italia, e di questi il 43 per cento era laureato, una percentuale che sale al 48 per cento se consideriamo soltanto le regioni settentrionali, secondo i dati della Fondazione Nord Est, che questa settimana ha pubblicato un lungo e dettagliato report sugli emigrati under 34. Tali numeri potrebbero essere notevolmente sottostimati perché, come noto, molte persone non si iscrivono all’anagrafe degli italiani all’estero, ma figurano ancora residenti nelle città di origine, malgrado i tentativi dei governi di scoraggiare questa abitudine. È un cambio di paradigma da non sottovalutare, scrivono gli autori dello studio: fino a pochi anni fa, i laureati erano soltanto un terzo, e il nord era meno coinvolto nel fenomeno.
Ciò che rende difficile invertire la tendenza è la profondissima crisi demografica, che sta già cambiando i connotati della nostra società, come dimostrano i dati sul mercato del lavoro. Ogni mese l’Istat registra un record percentuale di occupati, e uno dei motivi è proprio che il numero di italiani in età da lavoro si restringe, una riduzione dell’offerta che si aggraverà nei prossimi anni e creerà un serio problema di reclutamento alle imprese. Peraltro stiamo già assistendo, anche se nei grandi centri non ancora si avverte fino in fondo l’ampiezza del fenomeno, al più grande spopolamento delle aree interne osservato dalla prima grande urbanizzazione dei tempi moderni. Tutto ciò consegna un paese più vecchio, relativamente più povero e arroccato sull’esistente per provare a resistere alla competizione internazionale, con le sue migliori menti che vanno ad arricchire luoghi lontani. Chi torna, e sono pochi, rileva la Fondazione Nord Est, lo fa per “nostalgia”, non per le opportunità di carriera o per uno stimolo professionale.
Può sembrare una chiave di lettura pessimista, e forse lo è, ma fino a un certo punto: in Italia la qualità della vita resta alta, in alcune città medio-grandi molto alta, il tessuto sociale è ancora solido, non ci sono grandi tensioni etnico-religiose tra la popolazione (rispetto ad altri paesi europei), e si può godere di tanta bellezza e gusto con poca spesa. Semplicemente, i Michelangelo, Raffaello, Benjamin Franklin, Sofocle e altri di oggi non sono qui, nei nostri campanili, perché i centri decisionali ed economici si sono spostati.
Non sto scrivendo nulla di particolarmente innovativo o nuovo, ho messo insieme dati e fenomeni noti, dei quali i media si occupano spesso e che l’opinione pubblica sembra aver metabolizzato, anche se i governi pro tempore si attribuiscono spesso il merito di riforme “epocali” o di cambi di marcia difficili da riscontrare nella realtà. Perché è così complesso invertire la rotta? Probabilmente il contesto è talmente sfavorevole da non consentire più un reale cambiamento, e non si può far altro che “imparare a tramontare”, come suggeriva una bella serie di articoli pubblicati da La Stampa la scorsa estate, e attendere che un miglioramento dell’intelligenza collettiva permetta all’Italia di superare i suoi limiti attuali.
Se hai dei suggerimenti su tematiche da affrontare e/o dritte di ogni tipo, scrivimi pure sui miei account social. Se vuoi informazioni sull’abbonamento scrivi a: info@nredizioni.it