Un paese di provetti galleggiatori – Campanili n. 43
Un’Italia senza il mito della gloria, prigioniera di un presente breve: il passato pesa poco, il futuro non motiva. Un paese dove le rivoluzioni sono impossibili e le continuità prevalgono sempre
Difficilmente avrete sentito parlare degli isolotti Hunter e Matthew. Due scogli vulcanici disabitati – e probabilmente inabitabili – persi nel Pacifico meridionale. La Francia li rivendica dal 1929 e la sua marina li visita regolarmente, assicurandone il pattugliamento. Per anni sono rimasti sconosciuti al grande pubblico, certamente conscio dei possedimenti extraeuropei di Parigi, e in particolare di quelli nell’emisfero australe, ma non così nel dettaglio. Eppure, da qualche settimana, questi due isolotti grandi appena 0,7 e 0,6 km² sono tornati al centro del dibattito politico francese. Il motivo è che Parigi sta trattando con la Repubblica di Vanuatu, un arcipelago diventato nazione indipendente dal 1980, che li reclama come propri, per chiudere un contenzioso aperto da decenni. La sola ipotesi di un compromesso ha scatenato l’indignazione di una parte della stampa e dei partiti nazionalisti: cedere Hunter e Matthew, si dice, significherebbe aprire una breccia pericolosa nell’architettura della presenza francese nell’Indopacifico, un’area diventata sempre più centrale.
Questo perché i due isolotti, insieme ad altri territori d’Oltremare sparsi in tutti i continenti tranne l’Asia, permettono alla Francia di disporre della seconda zona economica esclusiva (ZEE) più estesa al mondo, oltre 10 milioni di chilometri quadrati. Definita dalla Convenzione di Montego Bay, la ZEE si estende fino a 200 miglia nautiche dalle coste e garantisce allo Stato sovrano diritti esclusivi di sfruttamento delle risorse marine. Nel caso di Hunter e Matthew, significa circa 350 mila km² di mare e la possibilità, almeno teorica, di accedere a queste risorse. Inoltre, rinunciarvi non sarebbe solo una perdita materiale, ma un precedente giuridico e politico pericoloso per ciò che resta dell’impero coloniale.
È un riflesso che, visto dall’Italia, risulta lontano tanto quanto i due isolotti. Non perché manchino sensibilità nazionali o orgogli identitari, ma perché il nostro rapporto con il passato coloniale – per quanto breve e traumatico – è stato in larga parte rimosso. Senza contare che l’Italia non possiede territori in altri continenti, non ha una ZEE globale da difendere, non ragiona quotidianamente in termini di proiezione marittima o di interessi d’oltremare (sì, L’Italia ha paura del mare). Lo stesso scarto si osserva guardando al Regno Unito. Nel 2024 Londra ha avviato il processo per restituire a Mauritius le isole Chagos, di fatto l’ultimo residuo dell’impero britannico in Africa, dove peraltro è presente una base militare congiunta con gli Stati Uniti. Anche lì, la decisione è stata accompagnata da polemiche accese, richiami al ruolo globale del Regno Unito e alla necessità di non smantellare, pezzo dopo pezzo, ciò che resta della sua storia imperiale. Ancora una volta, una discussione che ruota attorno a simboli, basi militari, diritto internazionale e memoria storica condivisa.
Tom McTague, uno dei giornalisti più acuti del panorama britannico e profondo conoscitore di entrambi i paesi, ha sottolineato qualche anno fa le grandi affinità tra Francia e Regno Unito:
Francia e Gran Bretagna sono forse più simili tra loro di qualsiasi altra coppia di paesi al mondo. Non solo per popolazione, ricchezza, passato imperiale, proiezione globale e tradizione democratica, ma anche per elementi più profondi: il senso di eccezionalità, la paura del declino, l’istinto all’indipendenza nazionale, il desiderio di riconoscimento e l’angoscia per la crescente potenza degli altri, che si tratti degli Stati Uniti, della Germania o della Cina. Londra e Parigi possono aver scelto strategie diverse, ma i parallelismi tra queste due nazioni sono evidenti.
Sarebbe molto difficile inserire l’Italia all’interno di questo parallelismo, non perché manchino storia o stratificazioni, ma perché non è mai stata una grande potenza. E dunque, la nostalgia per un passato glorioso viene meno rispetto ai nostri, egualmente decadenti, vicini europei. La gloria, semplicemente, non è contemplata tra le categorie politiche in Italia: una mancanza che si riflette negli slogan politici ai quali siamo abituati. Non esiste una retorica paragonabile al Make America Great Again di Donald Trump, né un atteggiamento che richiami – con tutti i limiti e gli aspetti ridicoli del caso – la retorica bonapartista tanto cara a Emmanuel Macron, o ancora l’idea della Global Britain inseguita attraverso la Brexit. In Italia, i movimenti No Euro hanno sempre sostenuto l’uscita dalla moneta unica e dall’Unione europea per svalutare la nuova lira e tornare competitivi, ma non per riconquistare un ruolo globale che, semplicemente, non abbiamo mai avuto. Il declino c’è, evidente in molti ambiti, ma la nostra reazione non è paragonabile all’incubo del declassamento che vivono quotidianamente le opinioni pubbliche francese e britannica: abbiamo forse nostalgia per gli anni del boom economico, ma certamente meno per l’iperinflazione degli anni Settanta o per il quasi fallimento dello Stato negli anni Novanta, che portò il governo Amato nel 1992 a effettuare un prelievo forzoso dai conti correnti.
Prendiamo i due leader più nazionalisti dell’ultimo decennio: Matteo Salvini, il leader più vicino all’universo MAGA, utilizza lo slogan “prima gli italiani”, ma non indulge in una retorica del “tornare grandi”. Lo stesso vale per Giorgia Meloni, che nel 2022 era molto più preoccupata di rassicurare – “siamo pronti a governare l’Italia” – che di evocare un ritorno a una fantomatica età dell’oro, anche per evitare accostamenti troppo diretti con il passato fascista.
Tutto questo avviene anche perché l’Italia è una società, a suo modo, profondamente “presentista”: ha grandi difficoltà a trarre dal passato lezioni, ispirazioni o persino frustrazioni, e allo stesso tempo non riesce più a guardare al futuro con fiducia. Il tempo della politica italiana è ristretto: il passato pesa poco, il futuro motiva ancora meno.
Per alcuni osservatori, però, questa capacità di stare nel presente può essere letta anche come una virtù. Lo scrive esplicitamente il Censis nel suo recente Rapporto sulla situazione sociale del Paese, che interpreta il realismo italiano come una forma di adattamento riuscito alle tempeste geopolitiche attuali. “Il nostro Paese ha saputo, più e meglio di altri, porsi faccia a faccia con il presente”, osservano gli esperti, pur senza riuscire a spezzare “la trappola del declino di ogni desiderio di futuro”. In questa lettura, la società italiana avrebbe rimodulato attese e desideri contingenti, contrastando sul piano economico e sociale il virus della crescita zero non attraverso grandi riforme o adeguamenti strutturali, ma attingendo a risorse interne per assorbire gli urti della realtà geopolitica e tecnologica.
Mi ha sempre affascinato una frase, attribuita a vari autori italiani del Novecento ma in realtà di difficilissima paternità: “La rivoluzione non si può fare perché ci conosciamo tutti”. Forse proprio per questo è così efficace: è talmente centrata da essere diventata patrimonio comune, parte del nostro inconscio collettivo, una sintesi del carattere nazionale. Dice, in fondo, che in Italia le rotture profonde sono impraticabili, perché le continuità personali, sociali e politiche finiscono sempre per prevalere.
Il paradosso politico è che, nonostante questa consapevolezza diffusa, l’Italia non ha mai sviluppato un vero partito conservatore, nel senso classico del termine. Non c’è stato qualcuno incaricato di difendere esplicitamente l’esistente, anche perché quello da conservare come ordine simbolico condiviso è piuttosto modesto. La nostra traiettoria politica è stata così segnata da un continuo ricorso alla retorica della rifondazione, con la sola significativa eccezione della Democrazia Cristiana, un partito che non prometteva rivoluzioni, ma governava il presente, tenendo insieme impulsi conservatori e istanze progressiste.
Prima della DC, invece, quasi tutti hanno parlato il linguaggio della rottura, nessuno ha utilizzato l’idea della conservazione. Il Risorgimento, di per sé, non poteva certo conservare lo status quo; il sistema politico sorto dall’Unità d’Italia men che meno, e anzi sinistra e destra storica erano talmente simili da inventare il trasformismo; il fascismo è stato senz’altro un movimento rivoluzionario (ha persino introdotto un nuovo calendario, come durante la rivoluzione francese), ma nel Ventennio ha compiuto una quantità enorme di compromessi – con la Chiesa, con gli industriali, con la monarchia sabauda – alieni agli altri regimi totalitari del Novecento.
E dopo la Prima Repubblica? Silvio Berlusconi ha promesso la sua “rivoluzione liberale”; Matteo Renzi ha coniato l’efficace slogan della “rottamazione”; il Movimento 5 stelle ha proposto di “aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno”. Insomma, in un paese dove “la rivoluzione oggi no, domani forse, dopodomani sicuramente”, tutti hanno continuato a prometterla perché farlo è uno dei modi d’essere della politica italiana.
Giorgia Meloni è forse la prima eccezione a questa regola, come abbiamo sottolineato più volte in questa newsletter: non conserva e non rivoluziona. È alla guida di un governo tendenzialmente fermo, che si crogiola nella stabilità politica e dei conti pubblici, privo di una vera idea di futuro e piuttosto a disagio con il passato. Non a caso, nel tentativo di costruirsi una genealogia culturale, la destra ha finito per arruolare tra i propri riferimenti intellettuali figure tra loro inconciliabili come Antonio Gramsci, Gabriele D’Annunzio e, nelle ultime settimane, persino Pier Paolo Pasolini.
La Presidente del Consiglio ha per questo vissuto una lunga fase di luna di miele con larga parte dell’opinione pubblica italiana, che non chiede scossoni o grandi riforme, ma che tutto continui com’è. In fondo è rassicurante, in un’epoca segnata da grandi sconvolgimenti e attitudini predatorie. La capacità di “saper stare nel presente” senza fare troppi voli pindarici, come scrive il Censis, è senz’altro un merito, perché protegge dalle eruzioni decliniste che osserviamo a Parigi e Londra. Resta tuttavia la grande questione del futuro, che probabilmente spaventa una società in rapido spopolamento e in desertificazione industriale. Meglio non pensarci. A lungo ci siamo raccontati come un paese di santi, poeti e navigatori, forse siamo diventati, più prosaicamente, una nazione di provetti galleggiatori.
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