L’espresso italiano è davvero un buon caffè? – Campanili n. 12
È un rito ormai parte dell’identità del paese, ma gli italiani non ne sanno quasi nulla. Un’indagine
A chi entra in un bar a Napoli per bere un espresso, basta semplicemente chiedere “un caffè”, perché il caffè è solo l’espresso. Se lo si vuole amaro andrebbe specificato: molti baristi lo servono con un abbondante cucchiaino di zucchero, spesso prima di appoggiare la tazzina sotto al beccuccio, un escamotage che dà l’impressione di contribuire a creare la crema che si deposita nella parte alta del liquido. Con un gesto quasi ancestrale, imparato fin da bambino, ogni napoletano prende il cucchiaino, lo inserisce nel caffè per poi appoggiarlo con delicatezza sul bordo dal quale si intende berlo: è un passaggio quasi obbligatorio per abbassare la temperatura, che è incandescente. Tutto ciò si svolge in meno di un minuto e mezzo, se non c’è fila alla cassa o al bancone. A dimostrazione di quanto il rito del caffè sia parte dell’identità napoletana. Ma perché “napoletana”? I miei concittadini sono convinti che il caffè migliore si beva a Napoli, e altrove sia soltanto una brutta imitazione. Acqua nera. Un po’ come con la pizza.
Naturalmente, non è così: un triestino potrebbe scrivere lo stesso centinaio di parole per descrivere la sua esperienza e la sua abitudine di ordinare un “nero”, come si definisce l’espresso in Friuli, il più delle volte seduto in uno splendido caffè storico, come il San Marco, più che in piedi al bancone. Senza parlare della specificità delle macchine da caffè, a Napoli e Trieste è più semplice trovarne a leva, nelle altre città italiane ormai s’è imposta quella elettrica, anche nei caffè storici, come al Tazza d’Oro, accanto al Pantheon di Roma, che è lì dal 1944, utilizza le macchine moderne ed espone quelle a leva nelle vetrine. Si possono comprare ma, per la verità, hanno più l’aria di oggetti costosissimi da collezione che di macchine da lavoro.
Con il più alto numero di torrefattori al mondo, un consumo pro capite di circa 6 chili di caffè l’anno, un settore che supera i 5 miliardi di fatturato, l’Italia è senz’altro uno dei paesi più legati a questa materia prima, pur non essendo un produttore: secondo la migliore tradizione, le aziende italiane trasformano ed esportano il caffè in tutto il mondo. Non la stessa varietà: nord e sud sono complementari. A nord, la miscela più usata è l’arabica, che copre gran parte del mercato domestico e del consumo al bar; al sud, invece, si utilizza in prevalenza la robusta. Le due varietà hanno un gusto differente, più leggera, aromatica e con una tendenza dolce l’arabica, più corposa e tostata la robusta. Il chicco di arabica contiene più oli essenziali e meno caffeina, mentre la varietà robusta possiede quasi il doppio della caffeina, e si presenta in chicchi più piccoli, da piante più resistenti. I circa mille torrefattori importano tutta la materia prima, che viene dai paesi che si trovano tra i due tropici e presentano (in alcune zone) caratteristiche climatiche peculiari: una temperatura ottimale tra i 22 e i 28 gradi, con piogge abbondanti in diversi periodi dell’anno e assenza in altri.
Nei supermercati compriamo, spesso senza farci caso, varietà diverse, così come al bar ordiniamo una tazzina di espresso non sapendo se sia arabica o robusta, anche se molti marchi propongono una miscela dei due chicchi. È difficile spiegare come mai le aziende di torrefazione siano così diffuse e capillari nel nostro paese. Una delle ragioni è probabilmente dovuta alla posizione geografica dell’Italia e alla sua centralità nei commerci marittimi, soprattutto dall’Asia: gran parte dei torrefattori nasce nelle città portuali che avevano accesso alla materia prima appena importata come Trieste, Napoli e Genova. Senza contare poi le due grandi industrie, Lavazza a Torino e Segafredo Zanetti a Bologna, le prime due aziende italiane del settore per fatturato.
In un mondo fortemente competitivo, dove si è esposti alle fluttuazioni della materia prima e a un margine molto piccolo, mi chiedo come possa resistere un ecosistema del genere. Elio Barbera, managing director di Caffè Barbera, tra le più antiche aziende italiane del settore, mi racconta che è possibile per come funziona il mercato italiano: “Il piccolo torrefattore, un’azienda sotto il milione di fatturato per intenderci, sta in piedi perché spesso può contare su una fortissima territorialità del prodotto. Magari rifornisce trenta o quaranta bar nella sua zona in una città di provincia, e questo gli è sufficiente per gestire una piccola attività. Alcuni crescono, altri non ci riescono. La tendenza è comunque in diminuzione: dieci anni fa le torrefazioni erano quasi 1500, oggi siamo sotto le mille aziende, il mercato si sta concentrando”. Uno dei motivi è l’export: per reggere la competizione internazionale e riuscire ad avere una rete di distribuzione nei paesi consumatori, la taglia piccola non basta più. Anche qui, l’aumento è stato molto rapido, spiega Barbera: “Circa vent’anni fa, alle fiere all’estero trovavi cinque o sei aziende italiane, oggi sono almeno una cinquantina”.
Un ecosistema che ha contribuito a rendere, insieme alla letteratura, al cinema, e ai bar che nelle città d’arte sono ormai presi d’assalto dai turisti, l’espresso una bevanda iconica che racchiude parte della nostra identità. Qualcuno, come Vincenzo Caballini di Sassoferrato, patron di Dersut, una delle principali aziende del nord-est, e soprattutto presidente del Consorzio di tutela del caffè espresso italiano, vorrebbe persino ottenere un riconoscimento internazionale per questa bevanda così legata alla Penisola, candidata a diventare patrimonio immateriale protetto dall’UNESCO: “Vorremmo un riconoscimento morale di storia, cultura e arte del caffè, l’unico con la crema. Gli altri sono ottenuti in modo diverso. Peraltro, all’estero il vero espresso italiano è molto difficile da trovare, non è altrettanto buono. Si tratta di un patrimonio specifico, legato alla nostra filiera formata da torrefattori, bar e baristi. Altrove questo non c’è.” Al riconoscimento morale si aggiungono i tentativi di regolamentare la ricetta, di bollinarla, come prova a fare l’Istituto nazionale espresso italiano, che ha registrato una vera e propria certificazione del caffè espresso a marchio Espresso Italiano (certificato di conformità di prodotto del Csqa n. 214 del 24 settembre 1999, DTP 008 Ed.1): alcuni bar che rispettano determinate regole possono utilizzare il marchio “Espresso italiano Certificato”.
Ma il caffè in Italia è davvero di qualità oppure è solo un luogo comune? La Repubblica l’ha definito “il più clamoroso equivoco gastronomico d’Italia”, e più inchieste giornalistiche hanno dimostrato la trascuratezza nella preparazione della bevanda nei nostri bar, la scarsa qualità della materia prima utilizzata e dei “trucchi” utilizzati dai torrefattori per mascherare il gusto, bruciando troppo i chicchi. A Napoli, l’utilizzo di zucchero, per esempio, serve spesso per coprire il cattivo sapore, malgrado la leggenda sul miglior caffè italiano: “Purtroppo in Italia si beve un caffè di minore qualità e, rispetto a quello che percepiamo, siamo agli ultimi posti tra i paesi consumatori”, spiega Andrej Godina, assaggiatore e consulente nel settore da più di vent’anni. “Abbiamo un numero enorme di torrefattori e non tutti offrono materia prima di alta qualità, perché non è semplice creare una filiera se sei una piccola azienda. Ma anche alcune grandi aziende spesso non garantiscono una buona qualità. Tendenzialmente è più questo il problema rispetto alla cattiva procedura di torrefazione, sulla quale l’Italia possiede un grande know-how”.
Per Godina, uno dei problemi è che il caffè viene comunicato male, ed è ormai troppo economico per poter essere profittevole: “Un espresso, per essere socialmente responsabile, deve costare almeno 1,50 euro. L’aumento dei costi della materia prima è un punto importante, certo, ma anche e soprattutto il personale è un tema chiave: spesso è sottopagato e poco formato, non dà valore aggiunto, non conosce cosa sta servendo, non ha riguardo per la macchina, che è spesso sporca e non manutenuta in modo adeguato. Il pubblico è assuefatto e non se ne rende conto”. Per molti bar, il caffè è dunque un prodotto in perdita, ma anche un servizio che non si può non offrire: il guadagno arriva dalle attività collaterali come la pasticceria o il cappuccino. L’abitudine di bere un espresso a poco più di un euro, quasi sempre uguale a se stesso, senza alcuna specificità, è talmente radicata che risulta molto difficile da cambiare. È piuttosto raro vedere offerte differenti tipologie di espresso: “Oggi in Italia non si comunica che dietro alla tazzina c’è una filiera complessissima, che esistono vari sapori, diverse miscele”, spiega ancora Godina. “I bar dovrebbero invece fornire un’offerta più complessa: iniziare con l’espresso base, fino ad arrivare a caffè fruttati, floreali, di grande complessità aromatica, bevande che sarebbe normale pagare anche 5 euro. Oggi invece c’è poca scelta ed è un peccato”. Anche Barbera ritiene che la qualità del caffè servito in Italia potrebbe essere migliore, ma sottolinea come negli ultimi anni l’attenzione dei consumatori sia cresciuta, un fattore che ha spinto molte aziende a rendere consultabile la propria filiera. Caffè Barbera, per esempio, permette di conoscere la piantagione di origine, le caratteristiche dei chicchi e tutte le particolarità della miscela tramite un QR code sui propri pacchetti.
Il 2023 è stato un anno molto difficile per le torrefazioni, sottolinea Caballini: “La siccità, la troppa pioggia e la speculazione hanno stravolto il mercato: il costo del robusta è triplicato, l’arabica ha subìto aumenti del 50 per cento, tutti gli anelli della catena, dai produttori, ai torrefattori, ai bar, hanno aumentato i prezzi. Era inevitabile”. Per chi, al sud, è abituato a importare robusta, soprattutto dall’Asia, il colpo è stato duro. Dettaglia Barbera: “La chiusura di Suez per noi è un problema enorme, perché ci riforniamo principalmente da India e Indonesia: i costi del trasporto sono schizzati alle stelle, e anche le tempistiche, con ritardi fino a due mesi. Cambiare fornitore non è affatto semplice, in primo luogo perché abbiamo accordi da rispettare, e in secondo perché il gusto tra un paese e l’altro può cambiare moltissimo. L’adattamento non è così rapido: chi aveva liquidità per affrontare la situazione è andato avanti, ma i più piccoli sono in difficoltà”.
La crisi della produzione e l’aumento dei prezzi continuerà probabilmente anche quest’anno: un inusuale clima freddo in Brasile, principale esportatore mondiale, soprattutto di varietà arabica, ha portato a una produzione ridotta, un duro colpo dopo la grande siccità che ha colpito il Vietnam, altro enorme produttore, a inizio 2024. Forse però questa crisi può introdurre un piccolo cambiamento in un settore che, come visto, resta piuttosto conservatore. Se i prezzi aumentano, aumenterà anche la tendenza a differenziare l’offerta, creando nuovi spazi per le aziende che puntano sulla qualità e concentrando ulteriormente un panorama troppo frastagliato. Piccolo non è sempre bello. Il caffè non diventerà mai come il vino, ma forse il settore può imparare qualcosa dal mondo vitivinicolo: bere un espresso di scarsa qualità, avendo gli strumenti per comprenderlo, piacerà a sempre meno italiani.
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