Campanili

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L’espresso italiano è davvero un buon caffè? – Campanili n. 12

È un rito ormai parte dell’identità del paese, ma gli italiani non ne sanno quasi nulla. Un’indagine

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Francesco Maselli
e
NightReview
set 14, 2024
∙ A pagamento

A chi entra in un bar a Napoli per bere un espresso, basta semplicemente chiedere “un caffè”, perché il caffè è solo l’espresso. Se lo si vuole amaro andrebbe specificato: molti baristi lo servono con un abbondante cucchiaino di zucchero, spesso prima di appoggiare la tazzina sotto al beccuccio, un escamotage che dà l’impressione di contribuire a creare la crema che si deposita nella parte alta del liquido. Con un gesto quasi ancestrale, imparato fin da bambino, ogni napoletano prende il cucchiaino, lo inserisce nel caffè per poi appoggiarlo con delicatezza sul bordo dal quale si intende berlo: è un passaggio quasi obbligatorio per abbassare la temperatura, che è incandescente. Tutto ciò si svolge in meno di un minuto e mezzo, se non c’è fila alla cassa o al bancone. A dimostrazione di quanto il rito del caffè sia parte dell’identità napoletana. Ma perché “napoletana”? I miei concittadini sono convinti che il caffè migliore si beva a Napoli, e altrove sia soltanto una brutta imitazione. Acqua nera. Un po’ come con la pizza.

Naturalmente, non è così: un triestino potrebbe scrivere lo stesso centinaio di parole per descrivere la sua esperienza e la sua abitudine di ordinare un “nero”, come si definisce l’espresso in Friuli, il più delle volte seduto in uno splendido caffè storico, come il San Marco, più che in piedi al bancone. Senza parlare della specificità delle macchine da caffè, a Napoli e Trieste è più semplice trovarne a leva, nelle altre città italiane ormai s’è imposta quella elettrica, anche nei caffè storici, come al Tazza d’Oro, accanto al Pantheon di Roma, che è lì dal 1944, utilizza le macchine moderne ed espone quelle a leva nelle vetrine. Si possono comprare ma, per la verità, hanno più l’aria di oggetti costosissimi da collezione che di macchine da lavoro.

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